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Fra cronaca e mito: il teatro si fa politico. Il festival 'Vie 2016' fra attese, disattese e poche sorprese.- di Nicola Arrigoni

"Tristesses" di Anne Cécile Vandale. Foto Phile Deprez "Tristesses" di Anne Cécile Vandale. Foto Phile Deprez

Fra cronaca e mito: il teatro si fa politico
Il festival 'Vie 2016' fra attese, disattese e poche sorprese
di Nicola Arrigoni

Da Vie – il festival della scena contemporanea inventato da Pietro Valenti – ci si aspetta molto, moltissimo, certe volte troppo. Si chiede a Vie di farsi vetrina del nuovo, di regalare scoperte sceniche, di mostrare lo stato dell'arte, se non indicare l'itinerario di senso lungo cui si muove la scena teatrale e performativa. Queste sono le attese che Vie instilla nello spettatore professionista e ogni anno si vorrebbe alzare l'asticella. Forse quest'anno le attese sono rimaste più sulla carta che effettivamente realizzate, non per qualità delle proposte, sempre alta, ma per i presupposti o semplicemente per quella cattiva abitudine del consumo culturale che vorrebbe ogni anno una novità assoluta, in ogni cartellone un capolavoro indiscutibile, nel segno di un 'evento della scena' che possa essere festivaliero e festoso al tempo stesso. Forse questo è mancato a Vie 2016 che come di consueto diviso fra Modena, Bologna, Carpi e Vignola ha voluto intrecciare una serie di racconti della nostra contemporaneità, affrontati con codici ampiamente frequentati, se non per poche e pregevoli eccezioni.

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Questo senza dubbio è stato il caso di Perhaps All The Dragons di Berlin (Bart Baele, Yves Degryse). Il titolo dello spettacolo si ispira a quanto scrive Rainer Maria Rilke: «Forse tutti i draghi della nostra vita sono solo principesse che aspettano di vederci recitare, solo una volta, con bellezza e coraggio». Lo spettacolo ha inizio con il pubblico che prende occupa le trenta postazioni che compongono uno spazio circolare di legno, una sorta di recinto delimitato da trenta schermi. Ad ogni schermo corrisponde una storia, un volto, un racconto: 29 di queste storie sono vere, una è inventata, si apprende dal foglio di sala. Si può ascoltare la storia di un ingegnere impegnato nel recuperare il sottomarino nucleare Kursk, oppure quella di un bambino alle prese con la disciplina in una sorta di corpo dei boyscout, o ancora il racconto delle tecniche di gestione delle relazioni all'interno di un contesto lavorativo, o l'esperimento che un sociologo mette in atto per dimostrare il criterio dei sei gradi di separazione: un'ipotesi secondo la quale ogni persona può essere collegata a qualunque altra persona o cosa attraverso una catena di conoscenze e relazioni con non più di cinque intermediari. Ed è questo il presupposto che muove la performance video per la cui completezza di storie e informazioni il gruppo rimanda al sito berlinberlin.be/perhaps. Ogni spettatore ha la possibilità di ascoltare sei racconti. Mentre si ascolta il racconto dell'uomo o donna che ci sta davanti, i personaggi in video (attori nella realtà) sembrano avere una relazione di vicinanza, si cambiano oggetti, si sussurrano all'orecchio, piccole azioni che forano il video verso quello di fianco e a cui si assiste con stupore e un po' di divertimento. Poi una canzone lanciata a tutto volume, una richiesta a voce alta interrompe i racconti, sospende l'azione e si capisce che bisogna alzarsi e presentarsi davanti al prossimo personaggio. Ciò che ci si porta via partecipando a Berlin è la condivisione di storie, forse legate fra loro, storie di cui si è stati testimoni, storie che ci hanno permesso di essere complici di vite vissute, nulla di più, ma non è neppure poco. Non importa sapere quale di quelle narrazioni non sia vera, la veridicità sta nella modalità del racconto, più vero del vero, come le relazioni video fra i diversi personaggi/attori che invitavano a una correlazione anche gli astanti. In tutto questo i confini fra messinscena e realtà si fanno labili e quelle vite nel video sembrano più vere del vero.

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Vite svelate nella doppia prospettiva teatrale e cinematografica sono le vite di Tristesses di Anne Cécile Vandalem. Tristesses è il nome dell'isola in cui si svolge il racconto di Anne-Cécile Vandalem, ma è anche la condizione degli abitanti di quel fazzoletto di terra che ci accomuna tutti. In Tristesses il racconto ha lo stesso peso specifico della modalità con cui la regista belga Vandalem sceglie di offrire uno spaccato della vita di quell'isoletta, sconvolta dalla morte di Ida, anziana signora che si è impiccata con la bandiera danese e madre della candidata di spicco del partito di estrema destra, in corsa per essere eletta primo ministro. La scena si compone di una serie di casette coloratissime. Lo spettatore può assistere a ciò che vi accade, attraverso un video e le riprese che vengono effettuate all'interno delle singole abitazioni. Si assiste così ad una sorta di film in presa diretta. Gli interni filmici trovano una loro contestualizzazione nell'azione teatrale non mediata che – nel massacro finale – è destinata a intrecciarsi, se non sovrapporsi con il testo filmico. L'escamotage del film in presa diretta fornice un focus che il teatro non si può permettere, al tempo stesso il teatro dà un contesto, uno scenario che svela le apparenze e le connivenze legate all'ascesa politica dell'aspirante premier di estrema destra che pensa di fare dell'isola Tristesses un set ideale per film di propaganda.

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L'aspetto politico e di racconto del nostro presente inquieto è enunciato con forza da Burning Doors di Belarus Free Theatre, uno degli appuntamenti più attesi del festival. L'azione politica e di denuncia del giovane gruppo bielorusso che porta in scena – fra l'altro – Maria Alyokhina, membro del collettivo anti Putin, Pussy Riot – si offre come una riflessione agita e danzata sull'arte come strumento di protesta e pensiero politico, ma al tempo stesso è un esplicita denuncia – agita e danzata – sulla limitazione della libertà d'espressione e di opposizione nella Russia di Putin. L'azione messa in atto dai giovani attori di Belarus Free Theatre ha una sua valenza di testimonianza (forse), ma denuncia anche una sorta di stasi estetica, si realizza mediante una serie di codici espressivi che al pubblico teatrale paiono per lo meno datati, quando non francamente poco incisivi, banali e ripetitivi. Insomma l'impegno politico non può sempre e comunque assolvere se non l'imperizia, per lo meno la scarsa acutezza estetica. Il dubbio è che i performer del Belarus Free Theatre non vadano molto oltre la legittima denuncia dell'oppressione messa in atto nei confronti degli oppressori dal regime bielorusso e russo. L'aspetto estetico i codici teatrali appaiono nel loro offrirsi datati e quasi ingenui per uno spettacolo come Burning Doors che vorrebbe choccare, indignare e si limita ad annoiare.

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Di fronte a tanto clamore per nulla, a tanto dichiarato opporsi e sbattere in faccia una cronaca dura, ma che nella finzione del teatro appare inevitabilmente spuntata e meno efficace e incisiva del previsto viene voglia di rifugiarsi altrove, nei nastri magnetici del vecchio Krapp beckettiano che Oskaras Korsunovas insieme al suo attore Juozas Budraitis toglie dall'affannoso bisogno di 'recuperare la memoria' in quel suo ripetuto cerimoniale di compleanno, per aprire il racconto a una sorta di strana e a tratti dolente nostalgia di un passato che non ritorna, di amori conclusi, di una vita che sta per finire, forse e che non sembra più neppure recuperabile nelle antiche registrazioni. In questo Ultimo nastro di Krapp – al di là della forza iconico/espressiva di Budraitis – si ha quasi l'impressione che Korsunovas abbia 'scambiato' Samuel Beckett per Anton Cechov, curioso cortocircuito autorale già frequentato da Massimo Castri quando mise in scena Le tre sorelle in stile beckettiano o eliotiano e Finale di partita come vaudeville cechoviano. Ma forse si tratta di un'eco del tutto personale e perciò rimane il dubbio su una lettura poco beckettiana dell'Ultimo nastro di Krapp che nel suo essere in scena non si giustifica, non si spiega e lascia un po' perplessi. E citando Massimo Castri non si può non considerare come Vie 2016 sia stata condizionata dall'apertura affidata alla maratona di Santa Estasi di Antonio Latella, il lavoro sulla saga degli Atridi realizzato per il corso di alta formazione per gli attori di Ert che il regista ha dedicato proprio a Castri. Si rimanda per un approfondimento all'intervista www.sipario.it/attualita/dal-mondo e all'analisi del progetto: www.sipario.it/attualita. Nel bene e nel male Santa Estasi ha condizionato – più o meno direttamente e implicitamente - l'intero festival e in un certo qual modo sembra essere la risposta italiana – firmata Ert – ad un'esigenza di investire sui giovani attori da un lato e dall'altro perché no leggere le relazioni familiari e politiche rifacendosi alle origini stesse del teatro, recuperando la lezione dei tragici per una riconsiderazione non solo del linguaggio scenico, ma anche del ruolo politico del teatro... Insomma se il primo fine settimana 'occupato' da Santa Estasi ha monopolizzato una parte del cartellone, Vie 2016 pur senza grandi sorprese mostra comunque di essere sempre e comunque una vetrina in cui il rito del teatro e le prospettive aperte dall'arte scenica sanno essere un'occasione per esercitare il libero pensiero sia nell'assenso che nel dissenso verso ciò che si vede. Forse il punto da cui partire o ri-partire è il teatro e le sue origini, è il teatro come occasione formativa e il teatro come spazio di riflessione, sguardo ripiegato e concentrato su quell'informazione che ha sempre meno forma, che se va bene registra ciò che accade, quando non si limita a far da gran cassa a una parte, a confermare e confermarsi in ciò che già si sa. E per un festival di teatro questa tensione al pensiero e al presente non è poca cosa, al di là dei singoli spettacoli, al di là delle attese per lo spettacolo capolavoro che altro non è che la panacea alla narcisistica bulimia dello spettatore professionista o critico, o addetto ail lavori che dir si voglia.

Ultima modifica il Giovedì, 10 Novembre 2016 08:51

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