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"La Torre d'avorio" di Ronald Harwood, regia Luca Zingaretti. Uno spettacolo su cui discutere

"La Torre d'avorio", regia Luca Zingaretti "La Torre d'avorio", regia Luca Zingaretti

Il teatro è palestra di idee e di confronti; lo è soprattutto quando propone temi universali che spingono lo spettatore a riflettere sulla storia, sulla cultura, sulla politica, sulla religione, sul costume.
Tra i molti che stanno per accendere gli animi degli spettatori sardi (il 23 e 24 febbraio a Sassari e dal 26 febbraio al 2 marzo a Cagliari) è La Torre d'avorio di Ronald Harwood, allestito con la regia e l'interpretazione di Luca Zingaretti, a cui si affianca, e non in ruolo secondario, un grande Massimo De Francovich.
Il lavoro, tradotto in italiano da Masolino D'Amico, è il Taking Sides di Ronald Harwood, commediografo sudafricano, già autore del Servo di scena che abbiamo visto la scorsa stagione, e di altri testi famosi o di sceneggiature come quella de Il pianista di Roman Polanski, che gli valse l'Oscar nel 2003.
Il titolo La Torre d'avorio, scelto dal traduttore D'Amico, bene coglie, rispetto all'originale che significa "prendere posizione, schierarsi", la complessa querelle attorno al rapporto tra arte e politica, tra arte e realtà storica.
Con l'espressione La torre d'avorio infatti, già in uso nel primo Novecento letterario europeo, ci si riferisce al concetto dell'art pour l'art e alla posizione dell'artista che, per distaccarsi dalla vita comune, dalla volgarità imperante e da una società dominata da idoli materiali, si rinchiude nella solitudine della torre d'avorio, facendo della sua stessa vita un'opera d'arte.
Il protagonista attorno a cui si muove l'intera pièce è il direttore d'orchestra tedesco Wilhelm Furtwängler, autentico gigante della cultura musicale del Novecento, fondatore e direttore dei Berliner Philharmoniker, che appartiene a quella particolarissima genia di grandi uomini che il nostro tempo non vedrà mai più.
Nato nel 1886 a Berlino e morto nel 1954 a Baden-Baden, visse per intero le due guerre mondiali, e durante la seconda, quando ormai aveva raggiunto con la sue memorabili interpretazioni grandezza e fama mondiali, non abbandonò la Germania di Hitler come fecero molti intellettuali, artisti, scienziati, ebrei e non. Nella pièce di questo si tratta: del suo essere rimasto in patria, peggio di aver contribuito con la sua arte a mantenere viva all'estero una immagine normale e addirittura culturalmente elevata di una Germania in realtà bestialmente disumana e disumanizzante. Inquisito nell'immediato dopoguerra per prossimità al regime nazista, e interrogato dal maggiore americano Steve Arnold, che lo mette all'angolo con inusitata durezza, talvolta arringandolo anche con argomenti impropri o volgari, il direttore si difende sostenendo che il suo ruolo quale artista, e quello quindi dell'arte in genere, in particolare della musica, arte per eccellenza nella cultura tedesca, è e deve essere quello di mantenere vivo quello spazio di libertà che solo uomini come Wagner o Beethoven, ad esempio, possono offrire ad uomini rinchiusi in una realtà di oppressione.
In scena i due, il direttore e il maggiore, si confrontano in tre brutali ed umilianti interrogatori, per poi dividersi senza vincitori né vinti.
Ma la questione è là, inquietante pur se irrisolta e tale da indurre a più di una riflessione. Nell'esplorare quella sottile linea d'ombra che fa dell'artista un uomo libero o un corifeo, un vassallo alle dipendenze della politica, il maggiore americano Arnold, incaricato di incastrare un "pezzo grosso" affinché fosse esemplare l'azione del tribunale antinazista, certo non poteva pienamente considerare la figura del musicista Furtwängler. Intanto la temperie culturale all'epoca della sua formazione, gli anni a cavallo dei sue secoli, quando uno scrittore come Thomas Mann, ad esempio nel suo Betrachtungen eines Unpolitischen, scrisse: "La volontà-esigenza dell'intellettuale-artista tedesco di non volersi impicciare degli affari terreni e di non volersi affatto mischiare con la folla caotica, sono i tratti salienti della sua natura perfettamente impolitica". Ciò negli anni tra il 1915 e il 1918, perché questa posizione superò poi lo scrittore premio Nobel nell'umanesimo illuminato del suo grande romanzo Der Zauberberg. Inoltre, perché culturalmente impreparato a cogliere sia il valore della musica nella cultura tedesca, sia la grandezza del direttore inquisito, di cui esaltarono critici autorevoli "il miracoloso equilibrio formale e il perenne rinnovarsi del decorso sinfonico in una specie di rifondazione creativa" (J.Kaiser). Se si considera poi che il direttore berlinese mai si iscrisse al partito di Hitler, e addirittura tentò in qualche occasione di sottrarsi ad inviti ed onori, meglio si può se non cogliere almeno ipotizzare l'intima Zerrissenheit (frattura) di chi implorava che le epurazioni ripetute non privassero la sua orchestra di preziosi elementi: -Non è rilevante il fatto che siano ebrei - ebbe a scrivere. Dal processo la sua carriera ne uscì distrutta. Non quella di Herbert von Karajan, che lo sostituì sul podio dei Berliner Philharmoniker, e che, è noto, ebbe non una, ma due tessere di iscrizione al partito nazista.

Annalaura Pau

Ultima modifica il Domenica, 09 Febbraio 2014 14:35

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