sabato, 27 aprile, 2024
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FESTIVAL - Macerata. Allo Sferisterio / Pesaro. Rossini Opera Festival. -di Piero Mioli

Macerata. Allo Sferisterio Macerata. Allo Sferisterio

FESTIVAL
Macerata. Allo Sferisterio
ARLECCHINI, SPECCHI E RISACCHE DI MARE
Carmen la zingara, Violetta la cortigiana, Lucia la pazza.
di Piero Mioli

Prima della scorpacciata pucciniana del centenario 2024 (Fanciulla del West, Bohème, Turandot), per il '23 il 59° Macerata Opera Festival ha imbandito la sua mensa operistica con Bizet, Verdi e Donizetti, si potrebbe quasi aggiungere con i rispettivi capolavori.

Ecco, il 20 luglio allo Sferisterio, Carmen, quella regina dell'opera en plein air che ha la sola concorrenza di Aida: italiano lo spettacolo (drammaturgia di Davide Carnevali, regia di Daniele Menghini, scene di Davide Signorini, costumi di Nika Campisi, balli di Virginia Spallarossa, voce fuori campo di Valentina Picello), forestiero il canto primario: Ketevan Kemoklidze come attrice-protagonista e Ragaa Eldin come non eroico ma molto lirico deuteragonista. A dirigere la FORM (alla lettera Filarmonica Orchestra Marchigiana), Donato Renzetti si è perfettamente equilibrato fra pertinenza musicale (alquanto rallentata, tuttavia) e necessità scenica, fra l'altro giovandosi del Coro “Bellini” mirabilmente istruito da Martino Faggiani. Risultato, una Carmen certo non spagnolesca o italianeggiante, la soprannominata Carmen degli “arlecchini” (così costumati erano gli zingari): sempre misurate le voci, per finire con quella di Roberta Mantegna finalmente calata nel suo repertorio.  A seguire, il 22 luglio, l'indimenticabile Traviata “degli specchi” (Brockhaus, Svoboda), mai abbastanza vista e rivista: nuova la primadonna, Nino Machaidze, dalla voce dura e poco ferma (brutterella quella nota aggiunta per acchiappare il temibile Re bem. della grande scena-finale primo). Attorno, l'Alfredo quasi adolescenziale di Anthony Ciaramitaro e il Giorgio intenso, persuasivo di Roberto de Candia. Direttore Domenico Longo, entusiasta sì e bene, magari un po' troppo a sottolineare, quasi sovralineare l'arioso di «Amami, Alfredo».

Bella la Lucia di Lammermoor del 12 agosto, a cominciare dallo spettacolo. Semplice, vivaddio, più suggestivo che realistico, ricco di ombre e povero di suppellettili. La riaperta scena della torre, per esempio, non era altro che la sagoma, contro l'eterno muro dello Sferisterio, di un edificio appositamente disarticolato d'altezza. E un altro elemento, stavolta fatto per apparire e riapparire all'occasione, era la vista di una proiettata risacca di mare contro l'ipotetica spiaggia del palcoscenico di fronte al pubblico, con tanto di cinematografico rumore d'onde. La gestualità era piuttosto mossa e originale, con vistose camminate (e forse invise ai fiati dei cantanti), e un fare nevrotico, scattante, fra il timido e l'insolente della protagonista, specie, inevitabilmente, nella scena della pazzia. Jean-Louis Grinda firmava la regia, Rudy Sabounghi le scene, Jorge Jara i costumi. Il sapiente maestro Jordi Bernácer (a proposito, lo spagnolo conosce solo l'accento acuto) deve aver accolto di buon grado la riapertura dei tagli, ma forse per non allungare troppo lo spettacolo non ha preteso la replica di tutte le cabalette. Variamente notevole il trio degli interpreti principali: Davide Luciano (Asthon) canta con buon lirismo e agisce con altrettanta scioltezza; la voce di Dmitry Korchak (Edgardo) è franca, diretta, omogenea anche se spesso un po' “stretta”, cioè leggermente stridula (la parte, si sa, fu scritta per un tenore, il Duprez, dalla voce “metallica”); Ruth Iniesta (Lucia) ha timbro piuttosto anonimo e prima ottava scarsetta, ma per il resto dà tono e senso pieno al personaggio, meritando l'ovazione seguente «Spargi d'amaro pianto». E finalmente il signor flauto ha ceduto il posto a madama glassarmonica, sotto «Ardon gl'incensi»: effetto di straniamento, sì, ma anche di arcana, quasi arcaica inaudita dolcezza.

Pesaro. Rossini Opera Festival
PIÙ TRIADE CHE TRITTICO
Tre opere serie composte da Rossini nel giro di un lustro 

Rene Barbera

Il suo ormai classico trittico di opere diverse (serie o comiche, italiane o francesi, giovani o mature) il Rossini Opera Festival del 2023 l'ha tramutato in una sorta di vaga triade armonica (il famoso Do-Mi-Sol, no?). Tre opere, sì, ma differenziate in altra maniera: la nota fondamentale, il Do, potrebbe essere il luminoso, cantabile, epico-idillico Aureliano in Palmira del 12 agosto; il Mi l'Adelaide di Borgogna del 13, partitura soltanto di buona maniera rossiniana; il Sol l'Eduardo e Cristina dell'11, opera notoriamente centone o “pasticcio”, cioè composta di musiche precedenti e quindi soprattutto molto interessante. Prima di qualche particolare, qualche generalità: da alcuni anni le scelte canore del ROF sono diventate più pertinenti di stile e soprattutto più generose di quantità e qualità; e la tecnica vocale, mentre evolve beneficamente nel senso della coloratura e nel settore sopranile, non ha ancora risolto il “mistero” dell'emissione acuta dei tenori, che ha luogo sempre “di petto” (a bella voce piena, donizettiana sì ma anche pucciniana!) e non “di falsetto[ne]”; le scelte visive sono rimaste al criterio raggiunto da tempo, quello della costruzione di imprevedibili spettacoli paralleli, neanche tangenti alle opere in sé con le loro cornici e i loro intrecci. Questo dicasi in un ammirevole contesto altrimenti filologico che prevede edizioni integrali e approntate sulle edizioni critiche. E tutte belle, lunghe, accurate, perfettamente studiate ed eseguite sono risultate le tre opere della XLIV annata andate in scena al Vitrifrigo Arena (meglio, all'Arena Vitrifrigo di genere femminile).

Molto battagliera l'apertura, con l'eccellente orchestra della RAI diretta da Jader Bignamini: titolari dell'opera, il soprano Anastasia Bartoli (Cristina) ha voce da vendere e il contralto Daniela Barcellona (Eduardo) altrettanta misura, esperienza classe vocale. Antagonista, il tenore Enea Scala sale e scende nei registri con sicurezza, grinta, assoluta credibilità scenica. Responsabile unico dello spettacolo, Stefano Poda ha molto complicato, intricato, gravato la scena, troppo per renderla intellegibile. Notevole spessore vocale è calato anche su Aureliano in Palmira: Sara Blanch è un impavido soprano lirico-leggero (che potrebbe “spingere” un pio' meno); Raffaella Lupinacci un mezzosoprano di bella tecnica ed eleganza, capace di recitativi guerreschi come di teneri cantabili; Alexey Tatarintsev un tenore dalla voce bella, omogenea, squillante, sicurissima. Dirigendo l'orchestra sinfonica “Rossini” George Petrou ha accentuato il coté epicheggiante, mentre Mirca Rosciani ha istruito il coro della Fortuna con tutto il lirismo necessario. Allestimento, quello del 2014 firmato nove anni or sono da Mario Martone, Sergio Tramonti e Ursula Patzak.

Adelaide di Borgogna è un'opera sfortunatella, che Rossini dovette buttar giù nel dicembre del 1817 dopo essersi spremuto su Cenerentola, Gazza ladra e Armida. Il libretto è piuttosto breve, la musica è più brillante della media seria, insomma non si tratta di una grande opera “storica” come per esempio il successivo Maometto II. Buona musica, va da sé, e soprattutto piena di decoro: l'hanno onorata la protagonista Olga Peretyatko, squisita voce lirica che sale con ogni agio (magnifica, veramente, la strofetta “O cara immagine”); Varduhi Abrahamyan, voce qua e là un po' troppo aggressiva e contralto non certo obbligato a salire rischiando qualcosa; René Barbera, simpatico tenore da commedia; Riccardo Fassi, basso dal felice accento alquanto “barbarico”. Al posto dell'annunciato Francesco Lanzillotta, ha diretto la sontuosa orchestra della RAI e il vivace coro del “Ventidio Basso” il giovane Enrico Lombardi. Spettacolo: l'opera non nella sua realtà nella sua disordinata preparazione, fra servizi, camerini, fondali, costumi e andirivieni di gente. Arnaud Bernard, Alessandro Camera, Maria Carla Ricotti e Fiammetta Baldiserri hanno firmato regia, scene, costumi e luci.

Ultima modifica il Lunedì, 11 Settembre 2023 12:11

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