giovedì, 02 maggio, 2024
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KILOWATT FESTIVAL 2023. -di Nicola Arrigoni

"Bach à la carte!" di Marco Augusto Chenevier. Foto Luca Del Pia "Bach à la carte!" di Marco Augusto Chenevier. Foto Luca Del Pia

«Avvolgere il pubblico e gli attori in una tale gioia che l’impossibile sembri possibile», scrive nei suoi appunti Julian Beck a proposito di Paradise Now del Living Theatre, citazione ripresa nel saggio di Marco de Marinis, Il nuovo teatro. È questo forse l’augurio che Lucia Franchi e Luca Ricci rivolgono al loro festival, al loro pubblico, ai 45 visionari, agli oltre 200 artisti e alla 59 compagnie coinvolte, intitolando la 21esima edizione di Kilowatt Festival, Paradiso adesso. Con Paradiso adesso si vorrebbe intravvedere la possibilità di cambiare le cose, di trasformare il nostro mondo e modo di essere. Il paradiso è una visione possibile che può essere terrena, basta impegnarsi tutti insieme. Il senso di comunità da un lato e dall’altro la necessità di cambiare registro sono il filo conduttore di una kermesse – divisa fra Sansepolcro e Cortona – che immagina un paradiso possibile come condivisione di uno stesso sogno che si realizza attraverso il disvelamento del teatro. 

Il cartellone è come sempre composto da spettacoli scelti dai due curatori e altri dagli spettatori visionari, in un mix di intrecci di sguardi che rappresenta l’originalità del festival. «Tutte le volte ci chiediamo, se questo format abbia ancora un senso, se la consapevolezza dei nostri spettatori visionari con gli anni non sia diventata una scorciatoia che ci rende facilmente identificabili e identificati – confessano Ricci e Franchi in una conversazione informale per le vie di Sansepolcro nella prima settimana di festival -. Poi gli incontri fra visionari e compagnie, poi la partecipazione agli spettacoli dei nostri spettatori, la sensazione che quanto accada appartenga loro, sia della comunità ci fanno dire che per noi è una via tracciata, ma per chi partecipa al viaggio, non lo è, è una scoperta che si rinnova. Forse per questo tutto ciò ha ancora un senso che è bello intravvedere negli altri, nel loro entusiasmo e nel nostro impegno». Un rinnovarsi che sta nella voglia di fare comunità, di sentirsi parte del tutto e anche di immaginare un altro possibile futuro, magari chiedendo ai giovani di offrire la loro visione e di svegliare noi adulti, chiedendo ai ragazzi di dire chi sono, di raccontarci le loro inquietudini e di darci una scossa. 

Restare Fuori è il titolo/provocazione dello spettacolo site specific di aquasumArte, performance digitale/itinerante, a cura di Maurizio Capisani e Sabrina Conte e realizzata col coinvolgimento narrativo e drammaturgico di un gruppo di adolescenti di Sansepolcro. Restare Fuori è una passeggiata per Sansepolcro, con tablet in mano e la narrazione della vita degli adolescenti del paese, la loro rivendicazione di spazi di ritrovo, ma anche l’accusa, ben precisa, verso un mondo degli adulti che agisce, se agisce, per correggerli, raramente ascoltandoli. E poi che dire della visione di genitori, zii e zie, nonni e nonne alle perse con i social, più e peggio dei loro figli e nipoti? Questi ultimi sì in cerca di contatto, di relazione per cambiare e reagire al mondo, insieme, partecipando. Peccato che siano gli stessi adulti a tagliarli fuori: questa è l’accusa, il rimprovero mosso durante la passeggiata per le vie di Sansepolcro allo spettatore itinerante.

Ultra Nicola Galli Luca Del Pia
Ultra - Nicola Galli. Foto Luca Del Pia

È questo imperativo categorico: «Ascoltateci!» che ritorna, nelle performance di risurrezioni possibili messe in atto da attori e performer giovani con scenario un’apocalisse imminente che annichilisce e pietrifica, ma che in sé mantiene termini di rinascite possibili. Ed è quanto propone Nicola Galli insieme a Massimo Monticelli in Ultra, visione coreografica di un mondo infero, una caverna in cui cristalli luminosi fanno intravvedere un terreno in movimento, in cui agiscono due figure indefinite chiamate a trasformare quella materia, essi stessi sostanza di una vita che si genera e ri-genera, laddove tutto appare morto e buio. In una dimensione rarefatta e oscura, l’azione di Nicola Galli insiste su una dimensione installativa che non offre vie d’uscita e chiede di essere accettata in toto o rifiutata in toto. Nicola Galli si conferma performer di acuta intelligenza, ma soprattutto impegnato a sottrarre sé stesso dalle sue opere, perché queste vivano indipendentemente da sé. Forse Ultra ne è un esempio aurorale, accede qualcosa, qualcosa che trascende la danza, trascende l’interprete e lo spettacolo diventa luogo, spazio, visione che si compie davanti ai nostri occhi, che chiede di essere accolta e forse, in un secondo momento, letta, interpretata, vissuta. 

In Migrena 2x2 il danzatore Yotam Peled si presenta in scena come corpo morto alle prese con una serie di kettlebell, palle di ghisa con una maniglia, che lo schiacciano a terra. In una sorta di corpo a copro con quegli oggetti Peled costruisce un disegno coreografico in cui la fisicità del corpo è segno di resistenza all’oblio e alla morte, di voglia di esserci e stare. Il lavoro assume senso nel contesto narrativo del festival, mentre di per sé si dimostra atto performativo fine a sé stesso e poco incisivo, se non per la natura performante del corpo in movimento. Ciò che fa il performer trova una sua energia solo a tratti, appare più dimostrazione fisica che espressione di un’anima che brucia all’interno del corpo.

Se Yotam Peled sembra volersi sottrarre al proprio destino come una sorta di Giona del bodybuilding, va nella direzione opposta la performance Il mio corpo è come un monte di Giulia Odetto, affiancata da Lidia Luciani e Daniele Giacometti. Una lunga striscia di pietre, il corpo di Odetto scrutato da una videocamera ad alta definizione, mossa da Giacometti: una scena che è di per sé elegante installazione. La dichiarazione di poetica e di racconto è detta all’inizio: «Voglio essere una montagna, non come una montagna». Ciò che accade davanti agli occhi dello spettatore è una metamorfosi del corpo che nelle sue posture coreutiche si fa – mediato dalla videocamera – paesaggio montano. In piedi su una pietra Odetto diviene Venere che emerge dalle acque, nel piegare le braccia, nel curvare la schiena, nel rendere evidenti e sproporzionate le scapole si assiste all’innalzarsi e sgretolarsi di una montagna, ma è nell’immagine di un corpo rannicchiato battuto dall’acqua che improvvisamente si avverte che quel corpo è diventato pietra levigata e lucida. Nel gioco della metamorfosi anche il coprire Odetto con le pietre e riprenderle da vicino, trasforma il movimento del respiro in un movimento tellurico che dice di monti che franano, di territori offesi dall’uomo.

Betty Tchomanga in Mascarades celebra la connessione fra corpo e natura, fondendo voce e movimento, laddove – invece – il binomio voce e movimento è tremendamente scisso in Silent voices di Biloura Artes Collective in cui le voci inascoltate, silenziose sono quelle delle donne costrette a prostituirsi, in Corea come in altre parti del mondo. Le due performance – diversissime per intensità ed estetica – si crede non a caso siano state affiancate, perché raccontano di un femminile che ha pienezza in un caso e nell’altro è svuotato di sé, femminile che in Tchomanga vive di straordinaria e felice intensità creativa e in Silent Voices diviene oggetto, merce nelle testimonianze offerte in video e nella danza di commento in scena. 

Si muove invece nella dimensione del gioco e del fare comunità lo spettacolo Bach à la carte! di Marco Augusto Chenevier. Insieme a Nitsan Margalot, Alessia Pinto, alla violoncellista Serena Costenaro e con tappeto sonoro di Pyur Sophie Schnell e le luci di Marcio Santambrogio, Chevenier costruisce – con la complicità del pubblico – uno spettacolo/menu all’insegna di Bach. Il pubblico è chiamato a votare gli ingredienti di ogni piatto, definendo ritmo, intensità, durata, luce, ruolo dei danzatori. Tutto avviene attraverso votazioni democratiche con tanto di cartellini di colore verde, rosso, giallo. Lo spettacolo si compie sotto gli occhi e per volere degli spettatori, un gioco di ruolo che mette alla prova i ballerini, chiamati a dare evasione alle scelte del pubblico, adattando, lì per lì, la coreografia secondo le indicazioni fornite dalla platea, compresa pure quella della durata. Lo spettacolo può infatti durare da un minimo di 45 a un massimo di 80 minuti per il divertimento della platea e la messa alla prova degli interpreti. Il gioco funziona. Nella decisione degli strati coreografici da dare alla torta/dessert che chiude il menù può accadere che si richieda di danzare al buio e con grande lentezza, con poca pelle addosso, ovvero seminudi. Bach à la carte è spettacolo intelligente che sa giocare con il linguaggio coreografico e la duttilità dei suoi interpreti, appagando il pubblico e rendendo la platea meno indistinta, ma promovendone una sorta di responsabilità nella fruizione come nella creazione.

suk my iperuranio
Suck my iperuranio di e con Giovanni Onorato. Foto Luca Del Pia

Storie individuali che interrogano, ci interrogano? Storie contemporanee di ragazzi poco più che trentenni che dicono di un presente pieno di incertezze e di una solitudine che mette con le spalle al muro, eppure in tutto ciò c’è spazio per l’ironia, per la comicità, come soluzioni per sopravvivere e, forse, vivere. È questa la riflessione che suggerisce Suck my iperuranio di e con Giovanni Onorato, rilettura libera, molto libera di Opinioni di un clown di Heinrich Böll, una sorta di stand up comedy in cui il protagonista è un ‘cabarettista’ che entra ed esce dal suo ruolo, in un lungo e divertente metaforico togliersi il cerone che molto diverte e molto fa pensare. Giovanni Onorato ha una presenza scenica che con gentilezza ti conquista, sa essere comico e melanconico al tempo stesso. La poltrona bianca in un angolo, lui in boxer e camicia: bastano questi pochi segni scenici per offrire un contesto di domestica solitudine che strappa il sorriso e fa pensare. Still alive di Caterina Marino mette in scena la depressione e lo fa con ironia e allampanata sfacciataggine con l’immancabile riferimento a uno spettacolo da farsi e alle cose per cui valga la pena vivere. Da tutto ciò fuoriesce un racconto gradevole e fresco che mostra come la disperazione possa avere anche il sorriso di una donna sola. Una riga nera al piano di sopra di e con Matilde Vigna è ancora una storia di sconfitte, di paure, di partenze e ritorni. La storia della protagonista si intreccia con la memoria dell’alluvione del 1951: il ritorno a casa della protagonista, dopo la fine di una relazione si contrappone al desiderio di mantenere la casa, difenderla dalle acque: questa la volontà ferrea degli sfollati nell’alluvione di 72 anni fa. La terra d’origine come luogo da cui fuggire si contrappone a quella terra invasa dall’acqua da cui gli abitanti non se ne volevano andare. In questo andamento ossimorico, Matilde Vigna fornisce una bella prova di scrittura e di interprete, confermandosi un’attrice pensante, fuoriuscita dalla scuola di Santa estasi di Antonio Latella

Servitore di due padroni Latella
Hotel Goldoni – Il servitore di due padroni - Antonio Latella. Foto Luca Del Pia

Proprio al regista napoletano è stata dedicata la giornata di confronto dal titolo Muse o Museruole, moderata dalla critica teatrale Claudia Cannella e dalla studiosa Maria Federica Mazzocchi, alla quale sono intervenuti lo stesso Antonio Latella, e le sue attrici Valentina Acca, Silvia Ajelli, Sonia Bergamasco, Caterina Carpio, Anna Coppola, Laura Marinoni, Candida Nieri, Monica Piseddu, Federica Rosellini, Cinzia Spanò, Elisabetta Valgoi. Dalla lunga giornata ne è fuoriuscito un caleidoscopico racconto fatto di commozione, ironia, di gioco e intelligenza, ma soprattutto di affetto e stima da parte delle attrici nei confronti del loro maestro. Ciò che ha regalato Muse o Museruole è stata la conferma della capacità di Latella di seminare, di essere grande nel far emergere i talenti autoriali dei suoi interpreti, di essere regista e pedagogo, capace di fare un teatro che diventa casa, luogo familiare, spazio di relazioni vere, costruite nel dialogo e nel confronto, elaborando un modello di regia gentile.  Che Latella accarezzi l’idea di rifondare il teatro di regia sembra sempre più evidente, ma la sua azione poetica e politica si compie nel segno della pedagogia e del magistero. Così il suo Hotel Goldoni – Il servitore di due padroni porta in scena il testo fondante del teatro di regia italiana della seconda metà del XX secolo e lo fa – dopo l’esperienza di un decennio fa con Ert – con i ragazzi dell’Accademia Silvio d’Amico. Una parete lignea con le icone di un uomo e una donna, di quelle che si trovano sulle porte delle toilettes, questo è l’unico segno scenico davanti, intorno, dietro al quale si muove un gruppo talentuoso di giovani attori da cui Latella tira fuori il meglio, trasformando i limiti in pregi. L’intricato testo goldoniano fatto di travestimenti, rivolte contro i padri, giovani in viaggio e servi affamati di denaro e di cibo sembra raccontare l’allegro e a tratti violento disorientamento dei giorni nostri. Le formalità linguistiche del testo diventano vuoti stereotipi, la fisicità nervosa e rabbiosa degli attori è la forza di uno spettacolo che ha il pregio di rivelare un nuovo e beffardo Arlecchino che ha il volto satiresco di Michele Eburnea, giovane interprete da tenere d’occhio. Insieme a lui in scena Gabriele Pestilli, Sofia Russotto, Flavio D’Antoni, Michele Nisi, Chiara Ferrara, Giuseppe Benvegna, Filippo Marone, Alessandra Arcangeli, Giulia Sessich, Edoardo Sani, Riccardo Longo che regalano un lavoro di intensa energia, tutto sparato, tutto detto in attacco che trasforma il testo goldoniano in una sfida, in un confronto fra generazioni. Antonio Latella fa dire al testo goldoniano di una gioventù innamorata vittima dei padri e delle circostanze, una gioventù che non si dà per vinta e alla fine la vince. 

mario perrotta
Mario Perrotta. Foto Luca Del Pia

Viene da pensare che alla fine il desiderio che accomuna gli spettacoli visti nel paradiso contemporaneo di Kilowatt Festival sia quello di immaginare il teatro Come una specie di vertigine, prendendo in prestito il titolo dello spettacolo da solista di Mario Perrotta, liberamente ispirato alle opere di Italo Calvino. Perrotta da istrione quale è fa propria la scrittura di Calvino, la divora cercando ciò che sembrerebbe impossibile: una sorta di vertigine al di sotto della corazza adamantina, apollinea dello stile dell’autore di Marcovaldo. La forza dello spettacolo di Perrotta sta nel conferire alle visioni di Palomar, del Barone Rampante, ma soprattutto de La giornata di uno scrutatore la potenza vertiginosa dell’inatteso, dell’imponderabile che sta nella realtà e che, quando meno te lo aspetti, ti cambia la vita, ti mette in discussione, ti costringe a ripensare a ciò di cui prima eri certo. È con questa piacevole e inquietante sensazione che si è chiusa la prima settimana di Kilowatt Festival destinato a proseguire a Cortona ma con la convinzione che il Paradiso è adesso, basta crederci, basta volerlo, basta costruirlo insieme. 

Ultima modifica il Giovedì, 20 Luglio 2023 13:16

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