DAL MONDOSipario Mensile e Portale: scopri il mondo dello spettacolo. Guida ai Teatri, ai Festival, alle Scuole di Danza e di Teatro; Recensioni degli spettacoli, Comunicati stampa, Cyclopedia e molto altro.https://www.sipario.it/attualita/dal-mondo/itemlist/category/626-interviste.feed2024-03-28T12:59:46+01:00Joomla! - Open Source Content ManagementINTERVISTA A LUNA CENERE - di Michele Olivieri2024-03-26T00:16:15+01:002024-03-26T00:16:15+01:00https://www.sipario.it/attualita/dal-mondo/item/15745-intervista-a-luna-cenere-di-michele-olivieri.htmlMichele Olivieri<div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/c3e5e31d34422b09cbc460ddd64ed8a7_S.jpg" alt="Luna Cenere. Foto Federica Capo" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: justify;"><strong>Luna Cenere</strong> è danzatrice, coreografa e performer. Artista associata del “Centro Coreografico Körper” dal 2017; è stata artista associata del “Festival Oriente Occidente” per il biennio 2019/2020 e sostenuta dall’azione “Residence XL” per l’anno 2019. Vincitrice del Premio Danza&Danza come Coreografa Emergente 2020 con lo spettacolo “Genealogia_Time Specific”, e autrice di “Kokoro”, spettacolo prodotto dalla Compagnia Körper con il sostegno della “Compagnia Virgilio Sieni”, del “Marosi Dans Fest” e dell’ex Asilo Filangieri di Napoli, selezionato dalla rete ANTICORPI XL e per la NID Platform 2019. Con questo spettacolo Luna viene selezionata come artista AEROWAVES TWENTY18 e vince il Premio per la migliore Coreografia del “Solocoreografico” 2017. Nel settembre 2019 <strong>Luna</strong> riceve il “Premio Speciale Positano Léonide Massine” come Talento Campano. Seguono poi “Twin" (2018) presentato in anteprima al Festival FOG/ Triennale di Milano e selezionato dalla rete ANTICORPI XL; “Pneumatika" (work in progress) (2018) presentato al Teatro T.A.N. di Napoli, al festival “La Democrazia del Corpo” a Firenze e al “Festival NAOcrea” a Milano; “Natural Gravitation – tributo a Isadora Duncan” (2028), commissione e produzione del Festival di Ravello e della Compagnia Körper; “Zoé” (2021) produzione della Compagnia Körper e del Festival Oriente Occedente, selezionato per la NID Platform 2021; “Shoes on” (2022) spettacolo selezionato dalla NID Platform 2023; “Vanishing Place” (2023) progetto vincitore del Bando per le nuove coreografie della Biennale di Venezia. Diplomata in danza contemporanea presso l’Ente di Promozione Nazionale Movimento Danza nel 2009. Al termine dei suoi studi <strong>Luna</strong> è già coinvolta nella scena artistica della città prendendo parte a numerosi progetti sul territorio. Nel 2011 lascia l’Italia per proseguire la sua formazione presso la SEAD, Salzburg Experimental Academy of Dance dove consegue la laurea e nel 2014 si trasferisce in Belgio. In questi anni frequenta festival internazionali come Il Festival Deltebre Danza, Impulstanz e la Biennale di Venezia e studia con maestri come <strong>David Zambrano</strong>, <strong>Francesco</strong> <strong>Scavetta</strong>, <strong>Martin Kilvady</strong>, <strong>Josef Frucek</strong>, <strong>Linda Kapetanea</strong>, <strong>Matej Kejzar</strong> e molti altri. Partecipa alle creazioni di <strong>Anton Lacky</strong> (Anton Lacky Company) e <strong>Josef Frucek</strong> (Rootlessroot). Nel 2014 lavora con <strong>Simone Forti</strong> e <strong>Anton Lacky</strong>. Nel 2016 diventa membro della “Compagnia Virgilio Sieni” in progetti come “La Mer”, “L’avventura” e “Il Cantico dei Cantici”. Nel 2017 lavora al film di <strong>Mario Martone</strong> “Capri Revolution” con la direzione coreutica di <strong>Raffaella Giordano</strong>. Ha creato le coreografie per gli spettacoli teatrali “Ferito a Morte” (2022) e “Clitennestra” (2023) con la regia di <strong>Roberto Andò</strong>. Insegnante certificata di danza contemporanea presso la SEAD, conduce laboratori di formazione, ricerca sul movimento e classi di improvvisazione.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Luna, com’è nata la tua passione per la danza e chi ti ha indirizzata verso l’arte?<br /></strong>Non saprei dire quando è nata la mia passione per la danza, direi che c’è sempre stata. Ricordo che ero piccolina quando iniziavo a muovere i primi passi a ritmo di musica e a mostrare le mie prime danze ai miei genitori. Fino all’età di sedici anni sono stata autodidatta e poi ho deciso di iscrivermi ad un corso di danza contemporanea a Napoli e di seguire un percorso professionale per poi trasferirmi all’estero. Ricordo di essere sempre stata sensibile alle varie forme d’arte, in particolare la musica, la pittura, la fotografia e la scrittura. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Com’è iniziata la tua formazione coreutica?<br /></strong>Ho iniziato con un corso di danza contemporanea per poi integrare lezioni di classico, release e <em>floor work</em>. Fino a ventidue anni ho seguito corsi e workshop in diverse strutture della città di Napoli e viaggiato per studiare con docenti di fama internazionale. Poi ho deciso di continuare la mia formazione all’estero e ho sostenuto audizioni per diverse accademie. Con mia grande gioia sono stata ammessa alla “SEAD Salzburg Experimental Dance Academy” a Salisburgo, che ho sentito subito molto affine rispetto al tipo di formazione che desideravo. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>In seguito come nasce l’esigenza di coreografare?<br /></strong>Già negli ultimi anni di formazione ero stata interprete per diversi coreografi e ho assistito a tanti spettacoli. Tra un esperienza e l’altra ho iniziato a maturare dentro di me delle riflessioni e l’urgenza di trovare uno spazio personale in cui sviscerarle. Così ho iniziato a scrivere e a trascorrere molte ore in sala mettendo in discussione tutto quello che avevo fatto fino a quel momento. Era il 2016.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>A distanza di anni, a chi senti di inviare un grazie, tra chi ti ha maggiormente supportata e compresa nello sviluppo della personalità artistica? <br /></strong>In questi anni itineranti ho fatto molti incontri meravigliosi. Mi sono nutrita di ogni conversazione e di ogni esperienza. A volte anche brevi incontri possono essere di grande supporto. Poi, ci sono le persone che ti accompagnano per un lungo tragitto, come quando ti affidi ad un maestro o ad una figura professionale che ti accompagna nella costruzione del percorso artistico o, ancora, i collaboratori che scelgono di esserci e sostenere una visione. Io vorrei poter ringraziare tutti. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Che tipo di allieva sei stata?<br /></strong>Anche se dentro di me ho un animo ribelle, come allieva sono sempre stata molto disciplinata. Quella stessa disciplina la applico nel mio lavoro, ed è un aspetto del mio carattere molto forte che emerge anche nel quotidiano.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quali sono i più evidenti problemi riscontrati per chi vuole fare oggi danza nel nostro Paese?<br /></strong>Credo ci sia ancora una forma di svalutazione di questo lavoro. Il problema è sistemico, culturale e questo si riflette sull’aspetto economico che in gran parte dei casi non rende il lavoro sostenibile. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Dove trovi la fonte d’ispirazione per le tue coreografie/performance?<br /></strong>Il corpo è per me una fonte interminabile di ispirazione per l’infinità di riflessioni che inevitabilmente mi porta a fare. Essendo il mio primo oggetto di interesse lo osservo e rifletto, immagino e sogno. Trovo sempre molto affascinante ricercare su una materia così concreta eppure ricca di significati filosofici, culturali e allo stesso tempo metafisici. L’umano, attraverso l’osservazione del gesto e della postura, manifesta anche ciò che c’è di più umano possibile: l’immaginazione. Siamo esseri capaci di attraversare con lo sguardo ciò che vediamo e connetterci ad altre dimensioni suggerite da ciò che è manifesto. Il corpo nudo per me è un paesaggio sconfinato di senso che si offre allo sguardo.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Merce Cunningham diceva che l’ispirazione la traeva anche “osservando la caduta di una signora inciampata sul marciapiede”. A volte è sufficiente un gesto per essere ispirati?<br /></strong>Assolutamente sì. Un gesto, un evento, una parola, possono scatenare lunghe riflessioni e divenire oggetto di indagine. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Pensi che ci sia affinità tra il modo di muoversi e il modo di affrontare i problemi dell’esistenza, in generale?<br /></strong>Penso al corpo come un canale di energie e la nostra postura è la manifestazione del fluire di queste ultime in esso. Questo flusso dipende molto da quanto siamo aperti e disponibili verso il mondo. Il modo in cui ci muoviamo è una conseguenza diretta di questa disponibilità. Ci sono diversi studi al riguardo e a volte lavorare sui canali energetici mediante il movimento consapevole può aiutare anche ad affrontare al meglio i problemi dell’esistenza. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Nei tuoi lavori cosa desideri lasciare in eredità agli spettatori?<br /></strong>Rispondo a questa domanda ponendomi prima da spettatrice. Gli spettacoli che mi hanno lasciato di più e che sono rimasti scolpiti nella mia memoria sono quelli che mi hanno colpito con una forma di turbamento, nel senso positivo del termine. Da spettatrice mi sento soddisfatta quando un lavoro mi tocca, lasciandomi in uno stato di riflessione. In qualche modo desidero essere condotta in un luogo sconosciuto. Da autrice desidero poter raggiungere lo stesso risultato e invitare il pubblico ad entrare in questa dimensione aperta della visione, cercando di curarne ogni possibile smarginamento. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Se non avessi fatto danza quale altra professione senti più affine al tuo pensiero?<br /></strong>Provo un grande amore per quello che faccio. La creazione è un motore importante per la mia vita e penso al teatro come il luogo in cui, ancora oggi, si possono veicolare messaggi di grande valore. Forse, un giorno, il mio ruolo si declinerà in altre forme, ma spero di non dover mai abbandonare questo settore. Ad oggi non riesco ad immaginarmi altrove. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Tra i tanti coreografi ed artisti del passato a livello storico, c’è qualcuno che ha influito in maniera determinante sul tuo stile?<br /></strong>Non mi sono mai lasciata influenzare troppo dai lavori che ho visto o con i quali sono entrata in contatto. Mi ha sempre spaventata l’idea di avere dei ‘riferimenti’. Confesso che è stato altrettanto fondamentale vedere o far parte di spettacoli verso i quali mi sono sentita totalmente in dissonanza per determinare in che direzione volessi andare. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa significa sperimentare nella danza?<br /></strong>Credo che il modo di intendere la sperimentazione sia soggettivo e dipenda anche dal genere di danza a cui si fa riferimento. Riguardo all’ambito del contemporaneo per me la sperimentazione è una condizione imprescindibile dell’atto creativo e significa mettere sempre in crisi e in discussione ciò che si sa o si crede di sapere nel tentativo di creare nuovi paesaggi di senso o far emergere qualcosa di sconosciuto. Sperimentare vuol dire anche stare in un processo e andare verso un luogo ignoto con fiducia. Spesso nel ritmo produttivo del sistema di cui facciamo parte, rischiamo di lasciare poco spazio alla libera sperimentazione e alla possibilità del fallimento, che invece sono fondamentali in un percorso artistico. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quali sono le prospettive future sul lavoro artistico che stai portando avanti?<br /></strong>Continuo a ricercare, a mettermi in discussione e a sperimentare nuove forme di significato. Quest’anno riprendo a lavorare su me stessa e torno in scena dopo due anni in cui mi sono dedicata principalmente alla coreografia. Dopo il debutto del mio ultimo lavoro “Vanishing Place”, sento di essere giunta ad un nuovo momento di riflessione con il quale ho l’urgenza di confrontarmi. Sono in scena come interprete per uno spettacolo con la regia di <strong>Raffaele di Florio</strong> che ha debuttato a marzo al Teatro di Napoli, e sto lavorando ad un duo con il sassofonista <strong>Antonio Raia</strong> che debutterà a giugno al “Festival Danza Estate a Bergamo”. Allo stesso tempo ho iniziato a scrivere dei nuovi progetti, tra cui un nuovo percorso laboratoriale con amatori e non professionisti che ho intenzione di presentare nel corso del prossimo triennio e un duetto con musicista in scena cha verrà presentato ad aprile in anteprima al “Festival Orbita” a Roma.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quanto gioca nel tuo lavoro la fantasia?<br /></strong>Sono una persona che sogna e immagina molto. Sin da quando iniziai a scrivere il mio primo solo ho sempre fatto riferimento al binomio reale/irreale. Poter condurre lo sguardo oltre la concretezza del corpo è il mio esercizio costante. La costruzione di paesaggi di corpi antropomorfi mi interessa tanto quanto la loro presenza surreale. Lavoro sul tempo del movimento e sulla postura per restituire questa dimensione metamorfica, come in un sogno. Mi affascina questa stessa capacità della mente umana di perdersi nelle immagini per scrutarne significati. Ciò richiede un esercizio di immaginazione sia da parte di chi compone con me, che da parte del pubblico che viene a vedere un mio spettacolo. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>C’è un filo sottile che lega ogni tua creazione installazione/coreografia all’altra?<br /></strong>La nudità come condizione umana, espressione di fragilità e potenza allo stesso tempo. Il corpo come spazio di vita e paesaggio vivo che si offre allo sguardo. Cosa sto guardando? dove si posa il mio sguardo? Cosa provo nel guardare un corpo? Rispondere a queste domande mentre osserviamo un copro nudo a volte piò scatenare un forte confronto con noi stessi. In ogni creazione cerco di stabilire una relazione diversa con lo spettatore partendo da queste domande. Pe me il corpo è un luogo di riflessione, lo specchio culturale oltre che psicologico. Ho sempre creato mossa dall’idea che l’atto della danza o performance, avendo a che fare con il copro presente debba sottintendere un pensiero radicale al riguardo. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>La presenza alla Biennale di Venezia con “Vanishing Place” ha messo in totale luce il tuo personale lavoro e stile. Che esperienza è stata?<br /></strong>Ho vissuto quell’esperienza come un grande dono della vita. “Vanishing Place” ha avuto due anni di gestazione e ha richiesto un lungo tempo di scrittura. Desideravo dedicarmi alla creazione di uno spettacolo che parlasse del sogno, del ricordo e dello spazio evanescente della mente. Volevo ricreare una dimensione onirica attraverso il movimento dei corpi, la creazione di uno spazio scenico miniale, l’uso della luce e del colore e il paesaggio sonoro. Ho scelto un gruppo di lavoro meraviglioso che ha compreso e abbracciato il progetto dedicandosi con me alla costruzione di questo limbo con grande passione e professionalità. Sembrava molto lontana la possibilità di poterlo portare a compimento finché non è arrivato il sostegno produttivo della Biennale e devo ringraziare il direttore <strong>Wayne Mc Gregor</strong> per avermi dato questa fiducia, la produzione Körper, il Teatro di Napoli e tutti i partner nazionali e internazionali che ci hanno sostenuti. È stato molto impegnativo, ma grazie a questa rete di ospitalità e supporto è stata anche un’esperienza indimenticabile. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Mi piacerebbe fornire al lettore una sorta di piccolo vademecum sulle tue creazioni in stringati concetti. L’assolo “Kokoro”?<br /></strong>“Kokoro” tratta il tema dei binomi, come lo stesso titolo suggerisce. Nella lingua giapponese questa parola assume entrambi i significati di ‘mente’ e ‘cuore’ che culturalmente noi separiamo. Allo stesso modo il corpo assume in sé tutte le contraddizioni e concetti apparentemente opposti. Tratta la ricerca costante del nostro essere di centrarsi e trovare la sua unicità attraverso un percorso trasformativo che da stato in stato, in un incedere di abbandoni e piccole morti, procede in una forma sempre nuova del nostro stare al mondo. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>“Zoé”?</strong><br />Questo lavoro nasce all’interno del percorso Genealogia, un progetto che, dopo aver composto tre soli, ho scritto con in desiderio di condividere la mia ricerca con amatori e professionisti. È stato il mio primo lavoro di gruppo di cui sono autrice a anche interprete. Insieme ai quattro performer che hanno assunto anche il ruolo di assistenti durante i percorsi partecipativi, ho sviluppato una sintesi delle riflessioni e delle esperienze corporee emerse durate i vari incontri, dando vita a un percorso fisico nello spazio che potesse declinarsi come un manifesto della mia ricerca coreografica a partire dal concetto di nuda vita. È un lavoro molto significativo per me anche perché la sua scrittura è iniziata nel 2018 e ha attraversato il periodo pandemico influenzando non poco il nostro pensiero sul senso di collettività o comunità, di alleanza, di corp-i, di relazione, di condizione umana e di spazio politico. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>“The Invisible Actor”<br /></strong>È il libro di <strong>Yoshi Oida</strong> e <strong>Lorna Marshall</strong> che più di tutti mi ha ispirata nel periodo di scrittura dei miei primi appunti coreografici. Una lettura che mi ha fatto comprendere quale potesse essere il mio statement da artista in scena e fuori dalla scena e su cosa veramente mi interessava indagare nelle mie pratiche. Il tema dell’invisibilità da quel momento è diventato il cardine del mio immaginario. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>“Shoes on”?<br /></strong>In questo duetto, oltre a indagare il dialogo tra due corpi maschili, mi sono divertita a giocare con la prospettiva di visione e con il pubblico. I due interpreti hanno lavorato su un contatto molto intimo, tenero e tratti sensuale fatto di tensioni, disequilibri e respiri. Le scarpe sono state l’espediente compositivo che ha traghettato la scrittura spaziale e drammaturgica a partire dalla costruzione di un microcosmo per andare verso un’apertura completa dello spazio e la conquista di quest’ultimo con la declinazione di un repertorio movimenti e gesti che potremmo dire d’archivio. Questi gesti vengono poi riletti in maniera giocosa proprio perché eseguiti da corpi che vestono solo delle scarpe da ginnastica. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>E naturalmente “Vanishing Place”?<br /></strong>“Vanishing place” è la creazione di un luogo in cui il tempo, inteso nella sua evanescenza, si genera e si perde. Gli spettatori sono invitati a entrare in uno spazio che è già abitato, così come accade quando visitiamo in maniera volontaria o meno dei luoghi della memoria o quando cadiamo in un sogno. Un paesaggio in movimento fatto di corpi immersi in un tempo sospeso, surreale, come i luoghi della mente. Rappresenta uno stato alterato della coscienza (in stretto legame con il tema scelto dal direttore della biennale Danza per quell’ edizione) dove ogni gesto diventa segno e si ripete nel tempo senza una logica apparente, eppure con una coerenza interna quasi ossessiva. In questo lavoro ho voluto dare forma a questo atto della mente, questo spostamento che avviene quando quest’ultima visita certi luoghi creando una dimensione in cui i corpi diventano presenze dai contorni sfumati, si frammentano e si compenetrano tra gli ‘spazi negativi’ siano questi vuoti (come lo spazio tra) o pieni (nell’interazione con gli oggetti). </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quanto è fondamentale nel tuo lavoro saper ascoltare gli altri, relazionarsi con gli elementi e con lo spazio?<br /></strong>Penso che l’ascolto degli altri possa avvenire solo se si è prima di tutto disponibili all’ascolto di sé stessi. La consapevolezza e l’onestà sono la prerogativa per una comunicazione positiva, sia essa verbale o corporea. Quando queste acque sono limpide anche l’ascolto dell’altro risuona chiaramente. Nella gestione di un gruppo di lavoro l’ascolto è un esercizio quotidiano fondamentale. Soprattutto in un lavoro intimo come può essere quello sul corpo nudo perché possono emergere molte fragilità o resistenze. La relazione con noi stessi e con gli altri in una condizione di nudità può far emergere parti nascoste della nostra personalità e il contatto quotidiano in una sala prove fa si che quello spazio possa diventare luogo di espressione e catarsi. Nelle mie pratiche di scrittura, poi, ho sempre creato le partiture coreografiche immaginando un percorso spaziale. Un procedere del corpo o dei corpi nello spazio inteso come un attraversamento che determina una trasformazione. Mi sono data delle regole che tengono conto dello sguardo di chi osserva e di come ogni luogo possa essere abitato in una forma diversa. Una sorta di mappatura dello spazio. Osservo le posture nel modo i cui dialogano con l’architettura circostante per disporle nel giusto luogo. È anche per questo che amo lavorare in site specific, abitare con il corpo uno spazio è creare un paesaggio nel paesaggio. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Come si svolgono le tue lezioni di danza e cosa ti piace nel ruolo di docente?<br /></strong>Per via dei molti impegni produttivi non mi dedico molto all’insegnamento ma più alla creazione di progetti partecipativi come il progetto ‘Genealogia’ intrapreso nel 2019. Qualche volta vengo invitata per brevi periodi a tenere workshop in scuole di danza come ad esempio a “Movimento Danza”, a Napoli. Principalmente mi dedico all’insegnamento della tecnica floor work e la mia vera passione è insegnare improvvisazione. Che sia un progetto o un workshop, mi piace molto condividere la mia esperienza e provare a guidare chi con fiducia si affida al mio sentire verso una ricerca personale. La vivo come una grande responsabilità e cerco di avere la massima cura nel farlo. La sala di danza e lo spazio prove, devono essere un luogo sicuro per chi le abita. La creazione di questa dimensione di serenità è responsabilità di chi guida per far sì che tutti si sentano tranquilli e non vivano nel timore dell’errore. Il luogo della creatività dovrebbe poter concedere a tutti la possibilità di sospendere il giudizio e, piuttosto, applicare una riflessione su ciò che si fa e che accade intorno. Direi, quindi, che ciò che mi piace di più dell’insegnamento è condividere il pensiero che mi muove attraverso l’uso delle tecniche o tools per poi far sì che ognuno, li possa tradire per trovare ciò che è giusto per se, per il suo corpo e la sua persona. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Come si dovrebbe valutare obiettivamente una creazione altrui?<br /></strong>In quanto artista ammetto che è molto difficile per me essere obiettiva e per questo non mi metto nella posizione di valutare le creazioni altrui. So bene che un processo creativo è fatto di molte difficoltà che talvolta si riverberano fino al risultato finale. Penso anche che quando un lavoro è riuscito manifesta una forza comunicativa che non necessita altre valutazioni. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>In conclusione come ti senti di definire l’arte della danza (soprattutto la tua) con le sue mille sfaccettature?<br /></strong>La danza come tutte le pratiche legate alle forme d’arte è parte di un flusso in continuo mutamento strettamente legato al tempo e ai contesti socioculturali nei quali si manifesta. Dal mio punto di vista, oggi la danza non può prescindere da una riflessione sull’uso dei corpi, da una ricerca di senso del gesto e la dichiarazione di uno statement alla base dell’atto creativo. Uso la parola ‘pratiche’ proprio perché nella mia ricerca mi concentro molto nella declinazione di queste ultime, nel rispetto dei corpi, delle loro peculiarità e di chi li abita. Il corpo è la danza e la danza è corpo. Si manifesta in ogni gesto, anche quotidiano e ciò che conta è il pensiero di chi l’agisce. Il mio lavoro non si focalizza sulle tecniche o il virtuosismo, ma sull’assunzione di una postura coerente con il pensiero critico che mi muove. Non amo le definizioni perché rischiano di circoscrivere o ingabbiare. Trovo interessante tutto ciò che di fatto sfugge ad una definizione e credo questo si rifletta nelle mie creazioni. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Michele Olivieri</strong></p></div><div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/c3e5e31d34422b09cbc460ddd64ed8a7_S.jpg" alt="Luna Cenere. Foto Federica Capo" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: justify;"><strong>Luna Cenere</strong> è danzatrice, coreografa e performer. Artista associata del “Centro Coreografico Körper” dal 2017; è stata artista associata del “Festival Oriente Occidente” per il biennio 2019/2020 e sostenuta dall’azione “Residence XL” per l’anno 2019. Vincitrice del Premio Danza&Danza come Coreografa Emergente 2020 con lo spettacolo “Genealogia_Time Specific”, e autrice di “Kokoro”, spettacolo prodotto dalla Compagnia Körper con il sostegno della “Compagnia Virgilio Sieni”, del “Marosi Dans Fest” e dell’ex Asilo Filangieri di Napoli, selezionato dalla rete ANTICORPI XL e per la NID Platform 2019. Con questo spettacolo Luna viene selezionata come artista AEROWAVES TWENTY18 e vince il Premio per la migliore Coreografia del “Solocoreografico” 2017. Nel settembre 2019 <strong>Luna</strong> riceve il “Premio Speciale Positano Léonide Massine” come Talento Campano. Seguono poi “Twin" (2018) presentato in anteprima al Festival FOG/ Triennale di Milano e selezionato dalla rete ANTICORPI XL; “Pneumatika" (work in progress) (2018) presentato al Teatro T.A.N. di Napoli, al festival “La Democrazia del Corpo” a Firenze e al “Festival NAOcrea” a Milano; “Natural Gravitation – tributo a Isadora Duncan” (2028), commissione e produzione del Festival di Ravello e della Compagnia Körper; “Zoé” (2021) produzione della Compagnia Körper e del Festival Oriente Occedente, selezionato per la NID Platform 2021; “Shoes on” (2022) spettacolo selezionato dalla NID Platform 2023; “Vanishing Place” (2023) progetto vincitore del Bando per le nuove coreografie della Biennale di Venezia. Diplomata in danza contemporanea presso l’Ente di Promozione Nazionale Movimento Danza nel 2009. Al termine dei suoi studi <strong>Luna</strong> è già coinvolta nella scena artistica della città prendendo parte a numerosi progetti sul territorio. Nel 2011 lascia l’Italia per proseguire la sua formazione presso la SEAD, Salzburg Experimental Academy of Dance dove consegue la laurea e nel 2014 si trasferisce in Belgio. In questi anni frequenta festival internazionali come Il Festival Deltebre Danza, Impulstanz e la Biennale di Venezia e studia con maestri come <strong>David Zambrano</strong>, <strong>Francesco</strong> <strong>Scavetta</strong>, <strong>Martin Kilvady</strong>, <strong>Josef Frucek</strong>, <strong>Linda Kapetanea</strong>, <strong>Matej Kejzar</strong> e molti altri. Partecipa alle creazioni di <strong>Anton Lacky</strong> (Anton Lacky Company) e <strong>Josef Frucek</strong> (Rootlessroot). Nel 2014 lavora con <strong>Simone Forti</strong> e <strong>Anton Lacky</strong>. Nel 2016 diventa membro della “Compagnia Virgilio Sieni” in progetti come “La Mer”, “L’avventura” e “Il Cantico dei Cantici”. Nel 2017 lavora al film di <strong>Mario Martone</strong> “Capri Revolution” con la direzione coreutica di <strong>Raffaella Giordano</strong>. Ha creato le coreografie per gli spettacoli teatrali “Ferito a Morte” (2022) e “Clitennestra” (2023) con la regia di <strong>Roberto Andò</strong>. Insegnante certificata di danza contemporanea presso la SEAD, conduce laboratori di formazione, ricerca sul movimento e classi di improvvisazione.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Luna, com’è nata la tua passione per la danza e chi ti ha indirizzata verso l’arte?<br /></strong>Non saprei dire quando è nata la mia passione per la danza, direi che c’è sempre stata. Ricordo che ero piccolina quando iniziavo a muovere i primi passi a ritmo di musica e a mostrare le mie prime danze ai miei genitori. Fino all’età di sedici anni sono stata autodidatta e poi ho deciso di iscrivermi ad un corso di danza contemporanea a Napoli e di seguire un percorso professionale per poi trasferirmi all’estero. Ricordo di essere sempre stata sensibile alle varie forme d’arte, in particolare la musica, la pittura, la fotografia e la scrittura. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Com’è iniziata la tua formazione coreutica?<br /></strong>Ho iniziato con un corso di danza contemporanea per poi integrare lezioni di classico, release e <em>floor work</em>. Fino a ventidue anni ho seguito corsi e workshop in diverse strutture della città di Napoli e viaggiato per studiare con docenti di fama internazionale. Poi ho deciso di continuare la mia formazione all’estero e ho sostenuto audizioni per diverse accademie. Con mia grande gioia sono stata ammessa alla “SEAD Salzburg Experimental Dance Academy” a Salisburgo, che ho sentito subito molto affine rispetto al tipo di formazione che desideravo. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>In seguito come nasce l’esigenza di coreografare?<br /></strong>Già negli ultimi anni di formazione ero stata interprete per diversi coreografi e ho assistito a tanti spettacoli. Tra un esperienza e l’altra ho iniziato a maturare dentro di me delle riflessioni e l’urgenza di trovare uno spazio personale in cui sviscerarle. Così ho iniziato a scrivere e a trascorrere molte ore in sala mettendo in discussione tutto quello che avevo fatto fino a quel momento. Era il 2016.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>A distanza di anni, a chi senti di inviare un grazie, tra chi ti ha maggiormente supportata e compresa nello sviluppo della personalità artistica? <br /></strong>In questi anni itineranti ho fatto molti incontri meravigliosi. Mi sono nutrita di ogni conversazione e di ogni esperienza. A volte anche brevi incontri possono essere di grande supporto. Poi, ci sono le persone che ti accompagnano per un lungo tragitto, come quando ti affidi ad un maestro o ad una figura professionale che ti accompagna nella costruzione del percorso artistico o, ancora, i collaboratori che scelgono di esserci e sostenere una visione. Io vorrei poter ringraziare tutti. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Che tipo di allieva sei stata?<br /></strong>Anche se dentro di me ho un animo ribelle, come allieva sono sempre stata molto disciplinata. Quella stessa disciplina la applico nel mio lavoro, ed è un aspetto del mio carattere molto forte che emerge anche nel quotidiano.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quali sono i più evidenti problemi riscontrati per chi vuole fare oggi danza nel nostro Paese?<br /></strong>Credo ci sia ancora una forma di svalutazione di questo lavoro. Il problema è sistemico, culturale e questo si riflette sull’aspetto economico che in gran parte dei casi non rende il lavoro sostenibile. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Dove trovi la fonte d’ispirazione per le tue coreografie/performance?<br /></strong>Il corpo è per me una fonte interminabile di ispirazione per l’infinità di riflessioni che inevitabilmente mi porta a fare. Essendo il mio primo oggetto di interesse lo osservo e rifletto, immagino e sogno. Trovo sempre molto affascinante ricercare su una materia così concreta eppure ricca di significati filosofici, culturali e allo stesso tempo metafisici. L’umano, attraverso l’osservazione del gesto e della postura, manifesta anche ciò che c’è di più umano possibile: l’immaginazione. Siamo esseri capaci di attraversare con lo sguardo ciò che vediamo e connetterci ad altre dimensioni suggerite da ciò che è manifesto. Il corpo nudo per me è un paesaggio sconfinato di senso che si offre allo sguardo.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Merce Cunningham diceva che l’ispirazione la traeva anche “osservando la caduta di una signora inciampata sul marciapiede”. A volte è sufficiente un gesto per essere ispirati?<br /></strong>Assolutamente sì. Un gesto, un evento, una parola, possono scatenare lunghe riflessioni e divenire oggetto di indagine. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Pensi che ci sia affinità tra il modo di muoversi e il modo di affrontare i problemi dell’esistenza, in generale?<br /></strong>Penso al corpo come un canale di energie e la nostra postura è la manifestazione del fluire di queste ultime in esso. Questo flusso dipende molto da quanto siamo aperti e disponibili verso il mondo. Il modo in cui ci muoviamo è una conseguenza diretta di questa disponibilità. Ci sono diversi studi al riguardo e a volte lavorare sui canali energetici mediante il movimento consapevole può aiutare anche ad affrontare al meglio i problemi dell’esistenza. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Nei tuoi lavori cosa desideri lasciare in eredità agli spettatori?<br /></strong>Rispondo a questa domanda ponendomi prima da spettatrice. Gli spettacoli che mi hanno lasciato di più e che sono rimasti scolpiti nella mia memoria sono quelli che mi hanno colpito con una forma di turbamento, nel senso positivo del termine. Da spettatrice mi sento soddisfatta quando un lavoro mi tocca, lasciandomi in uno stato di riflessione. In qualche modo desidero essere condotta in un luogo sconosciuto. Da autrice desidero poter raggiungere lo stesso risultato e invitare il pubblico ad entrare in questa dimensione aperta della visione, cercando di curarne ogni possibile smarginamento. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Se non avessi fatto danza quale altra professione senti più affine al tuo pensiero?<br /></strong>Provo un grande amore per quello che faccio. La creazione è un motore importante per la mia vita e penso al teatro come il luogo in cui, ancora oggi, si possono veicolare messaggi di grande valore. Forse, un giorno, il mio ruolo si declinerà in altre forme, ma spero di non dover mai abbandonare questo settore. Ad oggi non riesco ad immaginarmi altrove. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Tra i tanti coreografi ed artisti del passato a livello storico, c’è qualcuno che ha influito in maniera determinante sul tuo stile?<br /></strong>Non mi sono mai lasciata influenzare troppo dai lavori che ho visto o con i quali sono entrata in contatto. Mi ha sempre spaventata l’idea di avere dei ‘riferimenti’. Confesso che è stato altrettanto fondamentale vedere o far parte di spettacoli verso i quali mi sono sentita totalmente in dissonanza per determinare in che direzione volessi andare. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa significa sperimentare nella danza?<br /></strong>Credo che il modo di intendere la sperimentazione sia soggettivo e dipenda anche dal genere di danza a cui si fa riferimento. Riguardo all’ambito del contemporaneo per me la sperimentazione è una condizione imprescindibile dell’atto creativo e significa mettere sempre in crisi e in discussione ciò che si sa o si crede di sapere nel tentativo di creare nuovi paesaggi di senso o far emergere qualcosa di sconosciuto. Sperimentare vuol dire anche stare in un processo e andare verso un luogo ignoto con fiducia. Spesso nel ritmo produttivo del sistema di cui facciamo parte, rischiamo di lasciare poco spazio alla libera sperimentazione e alla possibilità del fallimento, che invece sono fondamentali in un percorso artistico. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quali sono le prospettive future sul lavoro artistico che stai portando avanti?<br /></strong>Continuo a ricercare, a mettermi in discussione e a sperimentare nuove forme di significato. Quest’anno riprendo a lavorare su me stessa e torno in scena dopo due anni in cui mi sono dedicata principalmente alla coreografia. Dopo il debutto del mio ultimo lavoro “Vanishing Place”, sento di essere giunta ad un nuovo momento di riflessione con il quale ho l’urgenza di confrontarmi. Sono in scena come interprete per uno spettacolo con la regia di <strong>Raffaele di Florio</strong> che ha debuttato a marzo al Teatro di Napoli, e sto lavorando ad un duo con il sassofonista <strong>Antonio Raia</strong> che debutterà a giugno al “Festival Danza Estate a Bergamo”. Allo stesso tempo ho iniziato a scrivere dei nuovi progetti, tra cui un nuovo percorso laboratoriale con amatori e non professionisti che ho intenzione di presentare nel corso del prossimo triennio e un duetto con musicista in scena cha verrà presentato ad aprile in anteprima al “Festival Orbita” a Roma.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quanto gioca nel tuo lavoro la fantasia?<br /></strong>Sono una persona che sogna e immagina molto. Sin da quando iniziai a scrivere il mio primo solo ho sempre fatto riferimento al binomio reale/irreale. Poter condurre lo sguardo oltre la concretezza del corpo è il mio esercizio costante. La costruzione di paesaggi di corpi antropomorfi mi interessa tanto quanto la loro presenza surreale. Lavoro sul tempo del movimento e sulla postura per restituire questa dimensione metamorfica, come in un sogno. Mi affascina questa stessa capacità della mente umana di perdersi nelle immagini per scrutarne significati. Ciò richiede un esercizio di immaginazione sia da parte di chi compone con me, che da parte del pubblico che viene a vedere un mio spettacolo. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>C’è un filo sottile che lega ogni tua creazione installazione/coreografia all’altra?<br /></strong>La nudità come condizione umana, espressione di fragilità e potenza allo stesso tempo. Il corpo come spazio di vita e paesaggio vivo che si offre allo sguardo. Cosa sto guardando? dove si posa il mio sguardo? Cosa provo nel guardare un corpo? Rispondere a queste domande mentre osserviamo un copro nudo a volte piò scatenare un forte confronto con noi stessi. In ogni creazione cerco di stabilire una relazione diversa con lo spettatore partendo da queste domande. Pe me il corpo è un luogo di riflessione, lo specchio culturale oltre che psicologico. Ho sempre creato mossa dall’idea che l’atto della danza o performance, avendo a che fare con il copro presente debba sottintendere un pensiero radicale al riguardo. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>La presenza alla Biennale di Venezia con “Vanishing Place” ha messo in totale luce il tuo personale lavoro e stile. Che esperienza è stata?<br /></strong>Ho vissuto quell’esperienza come un grande dono della vita. “Vanishing Place” ha avuto due anni di gestazione e ha richiesto un lungo tempo di scrittura. Desideravo dedicarmi alla creazione di uno spettacolo che parlasse del sogno, del ricordo e dello spazio evanescente della mente. Volevo ricreare una dimensione onirica attraverso il movimento dei corpi, la creazione di uno spazio scenico miniale, l’uso della luce e del colore e il paesaggio sonoro. Ho scelto un gruppo di lavoro meraviglioso che ha compreso e abbracciato il progetto dedicandosi con me alla costruzione di questo limbo con grande passione e professionalità. Sembrava molto lontana la possibilità di poterlo portare a compimento finché non è arrivato il sostegno produttivo della Biennale e devo ringraziare il direttore <strong>Wayne Mc Gregor</strong> per avermi dato questa fiducia, la produzione Körper, il Teatro di Napoli e tutti i partner nazionali e internazionali che ci hanno sostenuti. È stato molto impegnativo, ma grazie a questa rete di ospitalità e supporto è stata anche un’esperienza indimenticabile. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Mi piacerebbe fornire al lettore una sorta di piccolo vademecum sulle tue creazioni in stringati concetti. L’assolo “Kokoro”?<br /></strong>“Kokoro” tratta il tema dei binomi, come lo stesso titolo suggerisce. Nella lingua giapponese questa parola assume entrambi i significati di ‘mente’ e ‘cuore’ che culturalmente noi separiamo. Allo stesso modo il corpo assume in sé tutte le contraddizioni e concetti apparentemente opposti. Tratta la ricerca costante del nostro essere di centrarsi e trovare la sua unicità attraverso un percorso trasformativo che da stato in stato, in un incedere di abbandoni e piccole morti, procede in una forma sempre nuova del nostro stare al mondo. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>“Zoé”?</strong><br />Questo lavoro nasce all’interno del percorso Genealogia, un progetto che, dopo aver composto tre soli, ho scritto con in desiderio di condividere la mia ricerca con amatori e professionisti. È stato il mio primo lavoro di gruppo di cui sono autrice a anche interprete. Insieme ai quattro performer che hanno assunto anche il ruolo di assistenti durante i percorsi partecipativi, ho sviluppato una sintesi delle riflessioni e delle esperienze corporee emerse durate i vari incontri, dando vita a un percorso fisico nello spazio che potesse declinarsi come un manifesto della mia ricerca coreografica a partire dal concetto di nuda vita. È un lavoro molto significativo per me anche perché la sua scrittura è iniziata nel 2018 e ha attraversato il periodo pandemico influenzando non poco il nostro pensiero sul senso di collettività o comunità, di alleanza, di corp-i, di relazione, di condizione umana e di spazio politico. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>“The Invisible Actor”<br /></strong>È il libro di <strong>Yoshi Oida</strong> e <strong>Lorna Marshall</strong> che più di tutti mi ha ispirata nel periodo di scrittura dei miei primi appunti coreografici. Una lettura che mi ha fatto comprendere quale potesse essere il mio statement da artista in scena e fuori dalla scena e su cosa veramente mi interessava indagare nelle mie pratiche. Il tema dell’invisibilità da quel momento è diventato il cardine del mio immaginario. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>“Shoes on”?<br /></strong>In questo duetto, oltre a indagare il dialogo tra due corpi maschili, mi sono divertita a giocare con la prospettiva di visione e con il pubblico. I due interpreti hanno lavorato su un contatto molto intimo, tenero e tratti sensuale fatto di tensioni, disequilibri e respiri. Le scarpe sono state l’espediente compositivo che ha traghettato la scrittura spaziale e drammaturgica a partire dalla costruzione di un microcosmo per andare verso un’apertura completa dello spazio e la conquista di quest’ultimo con la declinazione di un repertorio movimenti e gesti che potremmo dire d’archivio. Questi gesti vengono poi riletti in maniera giocosa proprio perché eseguiti da corpi che vestono solo delle scarpe da ginnastica. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>E naturalmente “Vanishing Place”?<br /></strong>“Vanishing place” è la creazione di un luogo in cui il tempo, inteso nella sua evanescenza, si genera e si perde. Gli spettatori sono invitati a entrare in uno spazio che è già abitato, così come accade quando visitiamo in maniera volontaria o meno dei luoghi della memoria o quando cadiamo in un sogno. Un paesaggio in movimento fatto di corpi immersi in un tempo sospeso, surreale, come i luoghi della mente. Rappresenta uno stato alterato della coscienza (in stretto legame con il tema scelto dal direttore della biennale Danza per quell’ edizione) dove ogni gesto diventa segno e si ripete nel tempo senza una logica apparente, eppure con una coerenza interna quasi ossessiva. In questo lavoro ho voluto dare forma a questo atto della mente, questo spostamento che avviene quando quest’ultima visita certi luoghi creando una dimensione in cui i corpi diventano presenze dai contorni sfumati, si frammentano e si compenetrano tra gli ‘spazi negativi’ siano questi vuoti (come lo spazio tra) o pieni (nell’interazione con gli oggetti). </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quanto è fondamentale nel tuo lavoro saper ascoltare gli altri, relazionarsi con gli elementi e con lo spazio?<br /></strong>Penso che l’ascolto degli altri possa avvenire solo se si è prima di tutto disponibili all’ascolto di sé stessi. La consapevolezza e l’onestà sono la prerogativa per una comunicazione positiva, sia essa verbale o corporea. Quando queste acque sono limpide anche l’ascolto dell’altro risuona chiaramente. Nella gestione di un gruppo di lavoro l’ascolto è un esercizio quotidiano fondamentale. Soprattutto in un lavoro intimo come può essere quello sul corpo nudo perché possono emergere molte fragilità o resistenze. La relazione con noi stessi e con gli altri in una condizione di nudità può far emergere parti nascoste della nostra personalità e il contatto quotidiano in una sala prove fa si che quello spazio possa diventare luogo di espressione e catarsi. Nelle mie pratiche di scrittura, poi, ho sempre creato le partiture coreografiche immaginando un percorso spaziale. Un procedere del corpo o dei corpi nello spazio inteso come un attraversamento che determina una trasformazione. Mi sono data delle regole che tengono conto dello sguardo di chi osserva e di come ogni luogo possa essere abitato in una forma diversa. Una sorta di mappatura dello spazio. Osservo le posture nel modo i cui dialogano con l’architettura circostante per disporle nel giusto luogo. È anche per questo che amo lavorare in site specific, abitare con il corpo uno spazio è creare un paesaggio nel paesaggio. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Come si svolgono le tue lezioni di danza e cosa ti piace nel ruolo di docente?<br /></strong>Per via dei molti impegni produttivi non mi dedico molto all’insegnamento ma più alla creazione di progetti partecipativi come il progetto ‘Genealogia’ intrapreso nel 2019. Qualche volta vengo invitata per brevi periodi a tenere workshop in scuole di danza come ad esempio a “Movimento Danza”, a Napoli. Principalmente mi dedico all’insegnamento della tecnica floor work e la mia vera passione è insegnare improvvisazione. Che sia un progetto o un workshop, mi piace molto condividere la mia esperienza e provare a guidare chi con fiducia si affida al mio sentire verso una ricerca personale. La vivo come una grande responsabilità e cerco di avere la massima cura nel farlo. La sala di danza e lo spazio prove, devono essere un luogo sicuro per chi le abita. La creazione di questa dimensione di serenità è responsabilità di chi guida per far sì che tutti si sentano tranquilli e non vivano nel timore dell’errore. Il luogo della creatività dovrebbe poter concedere a tutti la possibilità di sospendere il giudizio e, piuttosto, applicare una riflessione su ciò che si fa e che accade intorno. Direi, quindi, che ciò che mi piace di più dell’insegnamento è condividere il pensiero che mi muove attraverso l’uso delle tecniche o tools per poi far sì che ognuno, li possa tradire per trovare ciò che è giusto per se, per il suo corpo e la sua persona. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Come si dovrebbe valutare obiettivamente una creazione altrui?<br /></strong>In quanto artista ammetto che è molto difficile per me essere obiettiva e per questo non mi metto nella posizione di valutare le creazioni altrui. So bene che un processo creativo è fatto di molte difficoltà che talvolta si riverberano fino al risultato finale. Penso anche che quando un lavoro è riuscito manifesta una forza comunicativa che non necessita altre valutazioni. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>In conclusione come ti senti di definire l’arte della danza (soprattutto la tua) con le sue mille sfaccettature?<br /></strong>La danza come tutte le pratiche legate alle forme d’arte è parte di un flusso in continuo mutamento strettamente legato al tempo e ai contesti socioculturali nei quali si manifesta. Dal mio punto di vista, oggi la danza non può prescindere da una riflessione sull’uso dei corpi, da una ricerca di senso del gesto e la dichiarazione di uno statement alla base dell’atto creativo. Uso la parola ‘pratiche’ proprio perché nella mia ricerca mi concentro molto nella declinazione di queste ultime, nel rispetto dei corpi, delle loro peculiarità e di chi li abita. Il corpo è la danza e la danza è corpo. Si manifesta in ogni gesto, anche quotidiano e ciò che conta è il pensiero di chi l’agisce. Il mio lavoro non si focalizza sulle tecniche o il virtuosismo, ma sull’assunzione di una postura coerente con il pensiero critico che mi muove. Non amo le definizioni perché rischiano di circoscrivere o ingabbiare. Trovo interessante tutto ciò che di fatto sfugge ad una definizione e credo questo si rifletta nelle mie creazioni. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Michele Olivieri</strong></p></div>INTERVISTA A ROCCO PAPALEO - di Francesco Bettin2024-03-18T05:01:09+01:002024-03-18T05:01:09+01:00https://www.sipario.it/attualita/dal-mondo/item/15730-intervista-a-rocco-papaleo-di-francesco-bettin.htmlFrancesco Bettin<div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/c61f823d78e9d39304337cd28ebf83ce_S.jpg" alt="Rocco Papaleo. Foto Gregor Khujen Belasi" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: justify;"><strong>Rocco Papaleo</strong> è un attore e regista curioso, che spazia dal teatro al cinema, e ancor prima alla canzone, con sempre qualcosa di musicale nella sua metodica lavorativa. Non a caso ha anche pubblicato due dischi come cantautore, un settore, quello delle sette note, che sente suo come gli altri. Ha appena terminato la tournée teatrale de <em>L’ispettore generale</em> di <strong>Nikolaj Gogol</strong>, prodotto dal Teatro Stabile di Bolzano e dal TSV Teatro Nazionale dove ha interpretato il Podestà, una simbolica figura della corruzione malfattrice e maldestra, spettacolo che ha avuto un grande successo. <strong>Rocco</strong>, a parte il teatro, è anche, naturalmente tanto cinema, dai primi film di e con <strong>Leonardo Pieraccioni</strong>, <strong>Virzì</strong> e <strong>Veronesi</strong> (ma aveva debuttato con <strong>Mario Monicelli</strong> ne <em>Il male oscuro</em>), a numerose e gustose interpretazioni in commedie diretto da <strong>Vicenzo Salemme</strong>, <strong>Sergio Rubini</strong>, <strong>Verdone</strong>, fino ai film suoi, quattro, diretti e interpretati con sicurezza: <em>Basilicata coast to coast</em>, <em>Una piccola impresa meridionale</em>, <em>Onda su onda</em> e <em>Scordato</em>, uscito lo scorso anno. Nel <em>Pinocchio</em> di <strong>Matteo Garrone</strong> ha interpretato il Gatto, sornione e imbroglione. E’ nel cast di <em>Un altro ferragosto</em>, ancora con la regia di <strong>Paolo Virzì</strong>, appena uscito nelle sale. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Com’è andato il tuo ultimo film <em>Scordato</em>, con Giorgia? <br /></strong> Bene, calcolando che mi son preso dei rischi facendo non proprio una commedia canonica. Ma è stato apprezzato, sia dal pubblico che è il mio interlocutore principale, che dalla critica che è stata benevola. Ha avuto anche un incasso discreto, guardando il momento storico, quindi sono contento. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Hai terminato da poco <em>L ’Ispettore generale</em>, a teatro. Un testo attuale che narrava di malefatte e tentativi di corruzioni che ancor oggi ci riguardano ovunque. E’ la storia dunque che si ripete? <br /></strong> In questo testo ci sono dei temi che sono fuori da ogni tempo, la questione trattata c’è da sempre e ci sarà sempre, la degenerazione del potere insita nell’uomo, la corruzione che lo anima. Anche Shakespeare, per dire, ha scritto sull’animo umano e le sue derivazioni, l’uomo più o meno ha una sua costituzione che si ripete, certo. Spirituale, psicologica, nei vizi e nelle virtù. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>E il Podestà com’e’ nel testo di Gogol? Vittima, carnefice? <br /></strong> Entrambe le cose. Nella sua giurisdizione è prepotente, corrotto, fa i suoi interessi e quando si deve confrontare con un superiore o con uno che pensa sia tale si genuflette, diventa debole, ossequioso. Nella piramide sociale più o meno funziona così, per le peggiori persone. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>L’anno scorso ti vedemmo a teatro con <em>Coast to coast</em>, divertente messa in scena tra il cabaret, la musica, l’intrattenimento e il teatro di prosa. Come mai la scelta di affrontare un classico, quest’anno? <br /></strong> Ogni artista a mio modo di vedere pensa di diversificare il proprio percorso, di approcciarsi con una possibilità sempre diversa, di crescita o comunque di deviare, incrementare il suo bagaglio. Per mia natura, per contingenza ma anche per casualità ho fatto un percorso moto variegato, mi sembrava dunque interessante in questo caso uscire fuori dalla mia comfort zone, da quello che so fare. M’interessava la sfida di portare in scena un personaggio classico, anche se in passato mi ero approcciato con testi di <strong>Eduardo</strong>. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Rocco, anche la musica fa parte di te. Possiamo dire che l’arte in generale ti è sempre un po’ appartenuta? <br /></strong> Da giovane non avevo una vocazione conscia, si’, un po’ suonavo ma non vedevo questo come qualcosa che potesse portarmi a una professione vera. A un certo punto, durante i miei fallimenti universitari mi è capitato, grazie a un’amica, di iscrivermi a un corso di recitazione, anche se pure questa all’inizio l’ho affrontata con un po’ di leggerezza. Mi sono trovato nel flusso dei teatri off romani, facendo i miei primi spettacoli nemmeno troppo convinto, era quasi una specie di gioco, passatempo. Ho avuto però una continuità, la cosa ha funzionato. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>I tuoi primi lavori?</strong> <br /> Di diverso genere, dal cabaret musicale alla commedia dell’arte, a testi più impegnati. Anni, quelli, un po’ anarchici, per caso, non per scelta, dove mi sono appassionato e sono riuscito a entrare nel circuito professionistico. Questa cosa piano piano mi ha posseduto, e ci ho messo la testa sempre di più. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Che periodo era quello, rispetto a oggi? Più facile o difficile stare in quel mondo artistico? <br /></strong> Pur non conoscendo bene in fondo quello che succede oggi nel mondo del teatro off, la mia percezione è che allora c’erano più possibilità e meno concorrenza. Oggi ci sono moltissime scuole, altrettanti attori anche se ognuno ha diritto di provarci ci mancherebbe, l’ importante è sapere che c’è una concorrenza forte. Ma anche a i miei tempi forse era un po’ così, di tutti i miei compagni delle scuole di recitazione che ho frequentato nessuno fa l’attore. Oggi ci sono più difficoltà, e al tempo stesso anche più occasioni. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>La prima cosa che serve per continuare a provarci? <br /></strong> Ci vuole molta fortuna, da quello non si prescinde. Ognuno di noi può affinare le proprie capacità e poi deve mettersi lì, sperare che la dea bendata si scopra un occhio e guardi. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Teatralmente parlando l’Italia ha bisogno di qualcosa, sempre in un confronto con altre realtà, magari nord europee per esempio dove l’attore è considerato di più? <br /></strong> In generale siamo un paese più arretrato dal punto di vista culturale e anche il teatro ne risente, pur essendo stata, l’Italia, la culla della cultura in Europa. Purtroppo paghiamo una deriva politica, populista, anche se non voglio mettermi a sindacare nei dettagli, ognuno ha le proprie idee. La tv commerciale ad esempio ha imposto un modello preciso, molto commerciale appunto. Anch’io ho fatto parte di qualche progetto, allora, uno dei quali ha rappresentato un po’ la mia svolta, una fiction che si intitolava <em>Classe di ferro</em>, che ebbe successo e mi sdoganò, e da lì in poi le cose hanno marciato diversamente per me. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quelle tavole di legno su cui si sale per recitare, il palcoscenico, in sintesi che luogo è? Cosa succede lì sopra? <br /></strong> Per quel che mi riguarda quando ci salgo acquisisco un superpotere, è come prendere una specie di licenza di essere, la mia timidezza svanisce. Su quello spazio acquisisco un coraggio che nella vita non ho, è un luogo dove per convenzione mi sento proprio libero. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Mai pensato a una scuola per attori, o comunque a insegnare come fanno molti tuoi colleghi? <br /></strong> E’ capitato di fare qualche stage, non mi dispiace farlo anche se non ho un vero metodo. Per scherzare infatti, dico sempre che il mio metodo è non avere metodo. Anche se, forse, un certo approccio con quello che faccio ce l’ho, ma non trovo sia qualcosa che posso spiegare a un giovane attore. Comunque non è proprio nelle mie intenzioni principali quello di essere maestro, anche perché non mi sento di esserlo. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>La naturalezza nella recitazione è anch’essa una tecnica, qualcosa che si mette a disposizione con esercizio? <br /></strong> Se vogliamo fare un discorso un po’ più… tecnico, appunto, avendo anche tuttora un grande legame con l’espressione musicale, il mio approccio va in quella direzione nel senso che quando canto uso la mia esperienza attoriale, cosa che anche i cantanti fanno, sia come postura che come uso della melodia verbale. Ma questa cosa io la faccio anche all’inverso, cioè quando recito quella melodia la uso nella voce, senza farmi accorgere, non è che prendo proprio delle note esplicite. Oltre alla ricerca della naturalezza e della verità che credo siano fondamentali, anche se poi si può aprire un dialogo sulla recitazione ronconiana, su quella brechtiana eccetera, mi sento di cercare una verità musicale. In fondo se si ascoltano due persone che parlano può essere interessante ma anche noioso. Possono esser veri, spontanei ma se non c’è quella musicalità, quella sensualità nella recita secondo me il dialogo diventa meno interessante. Quindi anche quando recito, ogni sera, cerco di render veri i dialoghi, ed entro come in una partitura musicale, un po’ con uno spirito, un approccio jazzistico. Cercando di essere sincero ma con un po’, come ho detto, di improvvisazione jazzistica. Il recitare dunque diventa come degli assoli di un musicista jazz che rispetta l’armonia in cui si muove la linea melodica ma la cambia a seconda dell’estro del momento. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa pensi di questa cosa che in Italia un artista è troppo settoriale, inquadrato e non vien visto bene se affronta più discipline? <br /></strong> C’è, eccome. Non si viene mai presi sul serio, se si cambia qualcosa del proprio percorso. Io ho provato varie volte ad andare al Festival di Sanremo, ma un attore che canta non viene accettato. Me l’hanno fatto anche condurre, un <em>Dopofestival</em>, ma cantarci proprio no. Vale anche l’inverso: per fare i miei concerti, da cantautore, devo fare una sorta di teatro-canzone, perché se facessi solo un concerto senza raccontare, senza recitare, il pubblico non lo capirebbe. Fa parte delle aspettative che ogni artista genera, però. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa stai facendo ora? <br /></strong> Un libro, con le canzoni dentro. Una sorta di biografia non propri organica, e ogni tanto c’è un <em>QR CODE</em> che rimanda a una mia canzone. Ho inciso in passato anche due dischi, direi buoni, ma è difficile venir considerati, non tanto perché la gente non è pronta per vederti in uno stato diverso, sono proprio le major che non ci credono, che non promuovono, che pensano magari che quella è una robetta da comico. Questa cosa però la devo accettare, devo fare i conti con una certa mia irregolarità, in fin dei conti sono un po’ diverso da come vengo invece percepito. E’ la mia proposta, che faccio e che è capitato di fare. Sono diventato famoso, conosciuto per il mio lato comico, le caratterizzazioni forti nei film di Pieraccioni, ad esempio, o con <strong>Checco Zalone</strong>. Poi ho fatto Basilicata coast to coast, il mio primo film, dove si è capito che non ero solo un comico, ma avevo anche un’anima un po’ più malinconica. Però i grandi successi son quelli del mainstream, dove sono un attore comico e quindi prima di essere anche accettato come un attore, diciamo, normale ci vuole ancora un po’. Piano piano sta avvenendo. Lo stesso mio ultimo film, <em>Scordato</em>, ha un impianto drammatico, e sto cominciando a essere considerato non proprio un caratterista ma più un attore a largo raggio. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Una domanda sul nostro cinema. Come lo vedi, oggi? <br /></strong> Beh, gode di ottima salute, abbiamo tanti maestri, e anche tanti giovani emergenti pieni di qualità. Aprire all’ internazionalità è sempre per noi però un limite, ci penalizza la lingua sicuramente. Detto questo c’è anche una nouvelle vague, se possiamo usare questa definizione, di giovani registi che avanzano, bravi. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>In <em>Scordato</em> hai chiamato Giorgia, la cantante, a recitare. <br /></strong> E’ stata un’operazione onesta, sicuramente. Sentivo che lei aveva quella componente giusta per il film, sapevo, perché la conosco, che avrebbe portato un bel risultato oltre al suo <em>appeal</em> di star della musica molto amata. E del film sono contento.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Francesco Bettin</strong></p></div><div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/c61f823d78e9d39304337cd28ebf83ce_S.jpg" alt="Rocco Papaleo. Foto Gregor Khujen Belasi" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: justify;"><strong>Rocco Papaleo</strong> è un attore e regista curioso, che spazia dal teatro al cinema, e ancor prima alla canzone, con sempre qualcosa di musicale nella sua metodica lavorativa. Non a caso ha anche pubblicato due dischi come cantautore, un settore, quello delle sette note, che sente suo come gli altri. Ha appena terminato la tournée teatrale de <em>L’ispettore generale</em> di <strong>Nikolaj Gogol</strong>, prodotto dal Teatro Stabile di Bolzano e dal TSV Teatro Nazionale dove ha interpretato il Podestà, una simbolica figura della corruzione malfattrice e maldestra, spettacolo che ha avuto un grande successo. <strong>Rocco</strong>, a parte il teatro, è anche, naturalmente tanto cinema, dai primi film di e con <strong>Leonardo Pieraccioni</strong>, <strong>Virzì</strong> e <strong>Veronesi</strong> (ma aveva debuttato con <strong>Mario Monicelli</strong> ne <em>Il male oscuro</em>), a numerose e gustose interpretazioni in commedie diretto da <strong>Vicenzo Salemme</strong>, <strong>Sergio Rubini</strong>, <strong>Verdone</strong>, fino ai film suoi, quattro, diretti e interpretati con sicurezza: <em>Basilicata coast to coast</em>, <em>Una piccola impresa meridionale</em>, <em>Onda su onda</em> e <em>Scordato</em>, uscito lo scorso anno. Nel <em>Pinocchio</em> di <strong>Matteo Garrone</strong> ha interpretato il Gatto, sornione e imbroglione. E’ nel cast di <em>Un altro ferragosto</em>, ancora con la regia di <strong>Paolo Virzì</strong>, appena uscito nelle sale. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Com’è andato il tuo ultimo film <em>Scordato</em>, con Giorgia? <br /></strong> Bene, calcolando che mi son preso dei rischi facendo non proprio una commedia canonica. Ma è stato apprezzato, sia dal pubblico che è il mio interlocutore principale, che dalla critica che è stata benevola. Ha avuto anche un incasso discreto, guardando il momento storico, quindi sono contento. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Hai terminato da poco <em>L ’Ispettore generale</em>, a teatro. Un testo attuale che narrava di malefatte e tentativi di corruzioni che ancor oggi ci riguardano ovunque. E’ la storia dunque che si ripete? <br /></strong> In questo testo ci sono dei temi che sono fuori da ogni tempo, la questione trattata c’è da sempre e ci sarà sempre, la degenerazione del potere insita nell’uomo, la corruzione che lo anima. Anche Shakespeare, per dire, ha scritto sull’animo umano e le sue derivazioni, l’uomo più o meno ha una sua costituzione che si ripete, certo. Spirituale, psicologica, nei vizi e nelle virtù. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>E il Podestà com’e’ nel testo di Gogol? Vittima, carnefice? <br /></strong> Entrambe le cose. Nella sua giurisdizione è prepotente, corrotto, fa i suoi interessi e quando si deve confrontare con un superiore o con uno che pensa sia tale si genuflette, diventa debole, ossequioso. Nella piramide sociale più o meno funziona così, per le peggiori persone. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>L’anno scorso ti vedemmo a teatro con <em>Coast to coast</em>, divertente messa in scena tra il cabaret, la musica, l’intrattenimento e il teatro di prosa. Come mai la scelta di affrontare un classico, quest’anno? <br /></strong> Ogni artista a mio modo di vedere pensa di diversificare il proprio percorso, di approcciarsi con una possibilità sempre diversa, di crescita o comunque di deviare, incrementare il suo bagaglio. Per mia natura, per contingenza ma anche per casualità ho fatto un percorso moto variegato, mi sembrava dunque interessante in questo caso uscire fuori dalla mia comfort zone, da quello che so fare. M’interessava la sfida di portare in scena un personaggio classico, anche se in passato mi ero approcciato con testi di <strong>Eduardo</strong>. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Rocco, anche la musica fa parte di te. Possiamo dire che l’arte in generale ti è sempre un po’ appartenuta? <br /></strong> Da giovane non avevo una vocazione conscia, si’, un po’ suonavo ma non vedevo questo come qualcosa che potesse portarmi a una professione vera. A un certo punto, durante i miei fallimenti universitari mi è capitato, grazie a un’amica, di iscrivermi a un corso di recitazione, anche se pure questa all’inizio l’ho affrontata con un po’ di leggerezza. Mi sono trovato nel flusso dei teatri off romani, facendo i miei primi spettacoli nemmeno troppo convinto, era quasi una specie di gioco, passatempo. Ho avuto però una continuità, la cosa ha funzionato. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>I tuoi primi lavori?</strong> <br /> Di diverso genere, dal cabaret musicale alla commedia dell’arte, a testi più impegnati. Anni, quelli, un po’ anarchici, per caso, non per scelta, dove mi sono appassionato e sono riuscito a entrare nel circuito professionistico. Questa cosa piano piano mi ha posseduto, e ci ho messo la testa sempre di più. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Che periodo era quello, rispetto a oggi? Più facile o difficile stare in quel mondo artistico? <br /></strong> Pur non conoscendo bene in fondo quello che succede oggi nel mondo del teatro off, la mia percezione è che allora c’erano più possibilità e meno concorrenza. Oggi ci sono moltissime scuole, altrettanti attori anche se ognuno ha diritto di provarci ci mancherebbe, l’ importante è sapere che c’è una concorrenza forte. Ma anche a i miei tempi forse era un po’ così, di tutti i miei compagni delle scuole di recitazione che ho frequentato nessuno fa l’attore. Oggi ci sono più difficoltà, e al tempo stesso anche più occasioni. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>La prima cosa che serve per continuare a provarci? <br /></strong> Ci vuole molta fortuna, da quello non si prescinde. Ognuno di noi può affinare le proprie capacità e poi deve mettersi lì, sperare che la dea bendata si scopra un occhio e guardi. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Teatralmente parlando l’Italia ha bisogno di qualcosa, sempre in un confronto con altre realtà, magari nord europee per esempio dove l’attore è considerato di più? <br /></strong> In generale siamo un paese più arretrato dal punto di vista culturale e anche il teatro ne risente, pur essendo stata, l’Italia, la culla della cultura in Europa. Purtroppo paghiamo una deriva politica, populista, anche se non voglio mettermi a sindacare nei dettagli, ognuno ha le proprie idee. La tv commerciale ad esempio ha imposto un modello preciso, molto commerciale appunto. Anch’io ho fatto parte di qualche progetto, allora, uno dei quali ha rappresentato un po’ la mia svolta, una fiction che si intitolava <em>Classe di ferro</em>, che ebbe successo e mi sdoganò, e da lì in poi le cose hanno marciato diversamente per me. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quelle tavole di legno su cui si sale per recitare, il palcoscenico, in sintesi che luogo è? Cosa succede lì sopra? <br /></strong> Per quel che mi riguarda quando ci salgo acquisisco un superpotere, è come prendere una specie di licenza di essere, la mia timidezza svanisce. Su quello spazio acquisisco un coraggio che nella vita non ho, è un luogo dove per convenzione mi sento proprio libero. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Mai pensato a una scuola per attori, o comunque a insegnare come fanno molti tuoi colleghi? <br /></strong> E’ capitato di fare qualche stage, non mi dispiace farlo anche se non ho un vero metodo. Per scherzare infatti, dico sempre che il mio metodo è non avere metodo. Anche se, forse, un certo approccio con quello che faccio ce l’ho, ma non trovo sia qualcosa che posso spiegare a un giovane attore. Comunque non è proprio nelle mie intenzioni principali quello di essere maestro, anche perché non mi sento di esserlo. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>La naturalezza nella recitazione è anch’essa una tecnica, qualcosa che si mette a disposizione con esercizio? <br /></strong> Se vogliamo fare un discorso un po’ più… tecnico, appunto, avendo anche tuttora un grande legame con l’espressione musicale, il mio approccio va in quella direzione nel senso che quando canto uso la mia esperienza attoriale, cosa che anche i cantanti fanno, sia come postura che come uso della melodia verbale. Ma questa cosa io la faccio anche all’inverso, cioè quando recito quella melodia la uso nella voce, senza farmi accorgere, non è che prendo proprio delle note esplicite. Oltre alla ricerca della naturalezza e della verità che credo siano fondamentali, anche se poi si può aprire un dialogo sulla recitazione ronconiana, su quella brechtiana eccetera, mi sento di cercare una verità musicale. In fondo se si ascoltano due persone che parlano può essere interessante ma anche noioso. Possono esser veri, spontanei ma se non c’è quella musicalità, quella sensualità nella recita secondo me il dialogo diventa meno interessante. Quindi anche quando recito, ogni sera, cerco di render veri i dialoghi, ed entro come in una partitura musicale, un po’ con uno spirito, un approccio jazzistico. Cercando di essere sincero ma con un po’, come ho detto, di improvvisazione jazzistica. Il recitare dunque diventa come degli assoli di un musicista jazz che rispetta l’armonia in cui si muove la linea melodica ma la cambia a seconda dell’estro del momento. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa pensi di questa cosa che in Italia un artista è troppo settoriale, inquadrato e non vien visto bene se affronta più discipline? <br /></strong> C’è, eccome. Non si viene mai presi sul serio, se si cambia qualcosa del proprio percorso. Io ho provato varie volte ad andare al Festival di Sanremo, ma un attore che canta non viene accettato. Me l’hanno fatto anche condurre, un <em>Dopofestival</em>, ma cantarci proprio no. Vale anche l’inverso: per fare i miei concerti, da cantautore, devo fare una sorta di teatro-canzone, perché se facessi solo un concerto senza raccontare, senza recitare, il pubblico non lo capirebbe. Fa parte delle aspettative che ogni artista genera, però. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa stai facendo ora? <br /></strong> Un libro, con le canzoni dentro. Una sorta di biografia non propri organica, e ogni tanto c’è un <em>QR CODE</em> che rimanda a una mia canzone. Ho inciso in passato anche due dischi, direi buoni, ma è difficile venir considerati, non tanto perché la gente non è pronta per vederti in uno stato diverso, sono proprio le major che non ci credono, che non promuovono, che pensano magari che quella è una robetta da comico. Questa cosa però la devo accettare, devo fare i conti con una certa mia irregolarità, in fin dei conti sono un po’ diverso da come vengo invece percepito. E’ la mia proposta, che faccio e che è capitato di fare. Sono diventato famoso, conosciuto per il mio lato comico, le caratterizzazioni forti nei film di Pieraccioni, ad esempio, o con <strong>Checco Zalone</strong>. Poi ho fatto Basilicata coast to coast, il mio primo film, dove si è capito che non ero solo un comico, ma avevo anche un’anima un po’ più malinconica. Però i grandi successi son quelli del mainstream, dove sono un attore comico e quindi prima di essere anche accettato come un attore, diciamo, normale ci vuole ancora un po’. Piano piano sta avvenendo. Lo stesso mio ultimo film, <em>Scordato</em>, ha un impianto drammatico, e sto cominciando a essere considerato non proprio un caratterista ma più un attore a largo raggio. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Una domanda sul nostro cinema. Come lo vedi, oggi? <br /></strong> Beh, gode di ottima salute, abbiamo tanti maestri, e anche tanti giovani emergenti pieni di qualità. Aprire all’ internazionalità è sempre per noi però un limite, ci penalizza la lingua sicuramente. Detto questo c’è anche una nouvelle vague, se possiamo usare questa definizione, di giovani registi che avanzano, bravi. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>In <em>Scordato</em> hai chiamato Giorgia, la cantante, a recitare. <br /></strong> E’ stata un’operazione onesta, sicuramente. Sentivo che lei aveva quella componente giusta per il film, sapevo, perché la conosco, che avrebbe portato un bel risultato oltre al suo <em>appeal</em> di star della musica molto amata. E del film sono contento.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Francesco Bettin</strong></p></div>INTERVISTA A SILVIO ORLANDO - di Francesco Bettin2024-03-03T01:00:18+01:002024-03-03T01:00:18+01:00https://www.sipario.it/attualita/dal-mondo/item/15683-intervista-a-silvio-orlando-di-francesco-bettin.htmlFrancesco Bettin<div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/8517d2ccd51068a4efd751957b85a2e4_S.jpg" alt="Silvio Orlando. Foto Guido Mencari Photography" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: justify;">Ironico e autoironico, dall’aspetto bonario e simpatico, ma richiesto qualche volta ed efficace anche nelle parti drammatiche, <strong>Silvio Orlando</strong> inizia la sua carriera dapprima come musicista per passare presto al teatro, recitando in filodrammatiche della sua città, Napoli. E’ con la televisione, e col cinema, che acquista una certa notorietà, tra <em>Zanzibar</em>, <em>L’araba fenice</em>, <em>Emilio sul piccolo schermo</em>, che lo fanno conoscere al grande pubblico, ai film <em>Palombella rossa</em>, di <strong>Nanni Moretti</strong>, con cui instaurerà un rapporto professionale molto valido, Il portaborse di Luchetti, Un’altra vita di Mazzacurati, Sud di Salvatores, Ferie d’agosto di Virzì. Il consenso ricevuto lo porta ad approfondire il suo rapporto col cinema, lavorando con <strong>Piccioni</strong>, <strong>Placido</strong>, <strong>Avati</strong>, e ancora con <strong>Nanni Moretti</strong> (protagonista de <em>Il caimano</em> e del recente <em>Il sol dell’avvenire</em>). Ma <strong>Orlando</strong> è molto attivo anche a teatro, in diversi spettacoli che culminano dal 2011 in poi nella fondazione, con <strong>Maria Laura Rondanini</strong>, di Cardellino srl, impresa di produzione teatrale che con acuta, scrupolosa osservazione sceglie testi originali e li porta in scena in un percorso coerente che, forse, si può definire di ricerca.. Da ricordare anche le sue partecipazioni cinematografiche in <em>Lacci</em>, di <strong>Daniele Luchetti</strong>, <em>Ariaferma</em> di <strong>Leonardo Di Costanzo</strong> e, ancora per la tv in <em>The Young Pope</em> e <em>The New Pope</em> di <strong>Paolo Sorrentino</strong>. In questo periodo è sugli schermi cinematografici con <em>Un altro ferragosto</em>, ancora di <strong>Paolo Virzì</strong> e in giro per l’Italia con lo spettacolo <em>Ciarlatani</em> di <strong>Pablo Remòn</strong>, altro interessante testo che riempie i teatri questo periodo è sugli schermi cinematografici con successo. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cominciamo proprio da Ciarlatani, lo spettacolo che sta portando in tournée. Chi sono i protagonisti? O lo siamo un po’ tutti in fondo? <br /></strong> Direi proprio questo… A mio avviso credo che lo siamo un po’ tutti, ciarlatani, sia nell’ambiente dello spettacolo che nella vita privata. Siamo tutti delle persone che dicono tante bugie, per tentare di stare bene nella vita sociale. E queste bugie le diciamo anche a noi stessi, che sono poi le più gravi perché non ci fanno affrontare i problemi seriamente, alla fine. In questo modo naturalmente ci ritroviamo dunque a fare sempre gli stessi errori. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Di questo testo cosa l’ha affascinata, soprattutto? <br /></strong> Da un lato il linguaggio dell’autore, la capacità di passare da un clima molto divertente, addirittura goliardico, a momenti di grande tensione sentimentale, che è quello poi che con la nostra società di produzione Cardellino cerchiamo sempre nei testi per poter arrivare al cuore delle persone, del pubblico. Ci piace trovare questa alternanza di toni, di vuoti, pieni, di non dare punti di riferimento agli spettatori, costringendoli a fare una piccola ginnastica mentale. Da un altro lato personalmente nel testo mi è piaciuto che si parli di fallimenti, credo poi sia quello il cuore emotivo dello spettacolo, quello che spero più di tutto arrivi, al di là della satira sul mondo dello spettacolo, di cui, devo dire la verità, mi interessa pochissimo. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Ecco, appunto, poteva anche sembrare un’autoanalisi di chi fa questo mestiere…<br /></strong> No, spero proprio non arrivi quello perché sarebbe una cosa fine a se stessa e un po’ sterile, sinceramente. Certo, ci sono quei personaggi, il regista, l’attrice, gente che lavora in quell’ambito, che sono personaggi emblematici e sottoposti a un giudizio feroce, quello degli altri, però gli stessi potrebbero in fin dei conti fare duemila altri mestieri. L’elemento del fallimento oramai è pervasivo di qualunque professione si faccia, dello stare al mondo. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Il significato dunque è accettarsi, mettersi in discussione? <br /></strong> Credo che il fallimento personale sia l’unico modo per poter crescere. Se uno lo analizza bene, lo attraversa, alla fine è l’unica modalità per arrivare a fare quei passi in avanti che sono necessari nella vita di un individuo, perché è proprio attraverso il fallimento che si arriva all’elemento fondamentale dell’essere umano che è l’umiltà. Diventando umili si riesce così ad ascoltare gli esseri umani e se stessi. Se si nega il fallimento, non lo si considera, si diventa, ecco, un ciarlatano. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Sperando che non tutti si trovino dentro tanti fallimenti…<br /></strong> Certo, non vorrei condannare le persone a sbatterci sempre addosso a queste cose, ci mancherebbe, ma si sa, succede un po’ a tutti e in tanti casi. Oggi viviamo nella dittatura del successo a tutti i costi, che è diventato un obbligo sociale. Per quanto riguarda gli adulti questa è una cosa che li fa star male, ma per i giovani addirittura questo aspetto li stronca. Nel momento in cui devono affrontare la vita e si sentono quest’obbligo, questa pressione così forte di essere sempre migliori, che venga dai genitori o dal mondo che li circonda, è terribile. Ma anche da parte di loro stessi, che si autocondannano con una visione un po’ onirica di entrare nelle vite degli altri, perché è un aspetto deleterio anche di condanna di vivere sempre in una dimensione di sogno altrui. Oramai vediamo che si entra nella case di chiunque, è una molla un po’ sadica della società di questo tempo che porta le persone a non stare bene, a pensare di non essere mai all’altezza delle situazioni. E lo spettacolo racconta questa cosa attraverso due figure: come il regista che ha successo ma che non gli corrisponde, che non lo disseta, perché il successo va riempito di contenuti e lui ha sete di questo, e vorrebbe lasciare un segno nel suo passaggio terreno attraverso qualcosa di meno superficiale. Alla fine questo però lo negherà, non accettando l’ultima sfida. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>E la giovane attrice, alla quale dà volto e corpo una brava Blu Yoshimi? <br /></strong> Lei saggiamente ha un atteggiamento più condivisibile, attraversa il proprio fallimento, si interroga e si libera, anche, di un rapporto un po’ tossico con un padre mancato, inesistente. Che poi sono i peggiori questi rapporti perché non li puoi più nemmeno affrontare. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Con Cardellino srl, la società sua e di Maria Laura Rondanini fate sempre scelte originali, interessanti, che portate a teatro…<br /></strong> Credo che siamo nati per quello, in realtà, anche per condividere quello che facciamo. Così abbiamo messo in piedi questa entità che come primo obiettivo si è dato quello di cercare di trovare parole, temi, linguaggi contemporanei per poter comunicare con il pubblico di oggi, al di là del teatro cosiddetto conservativo, meraviglioso, quello che tutti conosciamo. Le persone hanno bisogno di rispecchiarsi, di discutere, sentirsi chiamati in causa, quello che il teatro ha fatto in tutta la sua storia. In un certo periodo di tempo questo è stato però negato, la drammaturgia contemporanea è stata per un paio di decenni cancellata. L’ultimo grande drammaturgo che abbiamo avuto in Italia è <strong>Annibale Ruccello</strong>, che ha purtroppo avuto un percorso tragico, Nell’immaginario collettivo comunque sia è sempre <strong>Eduardo</strong> il più grande, dal dopoguerra in poi c’è un buco enorme. Non dico che noi riusciamo a riempirlo quel buco però ci proviamo. E poi appunto, come <strong>Ruccello</strong>, qualche eroe c’è stato. Se la proposta è onesta, non troppo calata dall’alto, non troppo seriosa, non autoreferenziale ben venga la nuova drammaturgia. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>L’essere considerato un grande attore aiuta, sul palco c’è sempre un bel vedere.</strong> <br /> Si, ma anche il più bravo pilota ha bisogno di una buona macchina per poter correre, dunque bisogna cercare, trovare belle cose da portare in scena, anche per noi stessi. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Pare che lei soffra, per così dire, di alcune sue insicurezze. Nemmeno il successo dunque colma questi aspetti? <br /></strong> Naturalmente dipende da una persona com’è fatta, il successo può far sì che si venga travolto da una certa <em>hubris</em>, io però ho un tipo di carattere diverso, il successo non lo vedo, piuttosto vedo le cose che ho sbagliato, penso a quello che potevo fare meglio. Non credo sia un atteggiamento sano quello di sentirsi arrivati da qualche parte. Anche ogni sera quando si apre il sipario penso a cosa sto andando a dire al pubblico. Il teatro è un terreno molto limaccioso, paludoso, una specie di sabbie mobili, bisogna saper bene dove mettere i piedi, non essere inghiottito, e questo dà anche un senso di freschezza a questo lavoro. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Chi è un attore? Quando sale sul palco cosa racconta alla gente? <br /></strong> L’attore penso sia un fratello, un demiurgo, qualcuno che assume su di sé, forse, un po’ di malesseri collettivi e cerca in qualche modo di esorcizzarli in scena. Attraverso questo rito collettivo penso trovi una sua funzione ancora sociale.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Francesco Bettin</strong></p></div><div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/8517d2ccd51068a4efd751957b85a2e4_S.jpg" alt="Silvio Orlando. Foto Guido Mencari Photography" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: justify;">Ironico e autoironico, dall’aspetto bonario e simpatico, ma richiesto qualche volta ed efficace anche nelle parti drammatiche, <strong>Silvio Orlando</strong> inizia la sua carriera dapprima come musicista per passare presto al teatro, recitando in filodrammatiche della sua città, Napoli. E’ con la televisione, e col cinema, che acquista una certa notorietà, tra <em>Zanzibar</em>, <em>L’araba fenice</em>, <em>Emilio sul piccolo schermo</em>, che lo fanno conoscere al grande pubblico, ai film <em>Palombella rossa</em>, di <strong>Nanni Moretti</strong>, con cui instaurerà un rapporto professionale molto valido, Il portaborse di Luchetti, Un’altra vita di Mazzacurati, Sud di Salvatores, Ferie d’agosto di Virzì. Il consenso ricevuto lo porta ad approfondire il suo rapporto col cinema, lavorando con <strong>Piccioni</strong>, <strong>Placido</strong>, <strong>Avati</strong>, e ancora con <strong>Nanni Moretti</strong> (protagonista de <em>Il caimano</em> e del recente <em>Il sol dell’avvenire</em>). Ma <strong>Orlando</strong> è molto attivo anche a teatro, in diversi spettacoli che culminano dal 2011 in poi nella fondazione, con <strong>Maria Laura Rondanini</strong>, di Cardellino srl, impresa di produzione teatrale che con acuta, scrupolosa osservazione sceglie testi originali e li porta in scena in un percorso coerente che, forse, si può definire di ricerca.. Da ricordare anche le sue partecipazioni cinematografiche in <em>Lacci</em>, di <strong>Daniele Luchetti</strong>, <em>Ariaferma</em> di <strong>Leonardo Di Costanzo</strong> e, ancora per la tv in <em>The Young Pope</em> e <em>The New Pope</em> di <strong>Paolo Sorrentino</strong>. In questo periodo è sugli schermi cinematografici con <em>Un altro ferragosto</em>, ancora di <strong>Paolo Virzì</strong> e in giro per l’Italia con lo spettacolo <em>Ciarlatani</em> di <strong>Pablo Remòn</strong>, altro interessante testo che riempie i teatri questo periodo è sugli schermi cinematografici con successo. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cominciamo proprio da Ciarlatani, lo spettacolo che sta portando in tournée. Chi sono i protagonisti? O lo siamo un po’ tutti in fondo? <br /></strong> Direi proprio questo… A mio avviso credo che lo siamo un po’ tutti, ciarlatani, sia nell’ambiente dello spettacolo che nella vita privata. Siamo tutti delle persone che dicono tante bugie, per tentare di stare bene nella vita sociale. E queste bugie le diciamo anche a noi stessi, che sono poi le più gravi perché non ci fanno affrontare i problemi seriamente, alla fine. In questo modo naturalmente ci ritroviamo dunque a fare sempre gli stessi errori. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Di questo testo cosa l’ha affascinata, soprattutto? <br /></strong> Da un lato il linguaggio dell’autore, la capacità di passare da un clima molto divertente, addirittura goliardico, a momenti di grande tensione sentimentale, che è quello poi che con la nostra società di produzione Cardellino cerchiamo sempre nei testi per poter arrivare al cuore delle persone, del pubblico. Ci piace trovare questa alternanza di toni, di vuoti, pieni, di non dare punti di riferimento agli spettatori, costringendoli a fare una piccola ginnastica mentale. Da un altro lato personalmente nel testo mi è piaciuto che si parli di fallimenti, credo poi sia quello il cuore emotivo dello spettacolo, quello che spero più di tutto arrivi, al di là della satira sul mondo dello spettacolo, di cui, devo dire la verità, mi interessa pochissimo. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Ecco, appunto, poteva anche sembrare un’autoanalisi di chi fa questo mestiere…<br /></strong> No, spero proprio non arrivi quello perché sarebbe una cosa fine a se stessa e un po’ sterile, sinceramente. Certo, ci sono quei personaggi, il regista, l’attrice, gente che lavora in quell’ambito, che sono personaggi emblematici e sottoposti a un giudizio feroce, quello degli altri, però gli stessi potrebbero in fin dei conti fare duemila altri mestieri. L’elemento del fallimento oramai è pervasivo di qualunque professione si faccia, dello stare al mondo. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Il significato dunque è accettarsi, mettersi in discussione? <br /></strong> Credo che il fallimento personale sia l’unico modo per poter crescere. Se uno lo analizza bene, lo attraversa, alla fine è l’unica modalità per arrivare a fare quei passi in avanti che sono necessari nella vita di un individuo, perché è proprio attraverso il fallimento che si arriva all’elemento fondamentale dell’essere umano che è l’umiltà. Diventando umili si riesce così ad ascoltare gli esseri umani e se stessi. Se si nega il fallimento, non lo si considera, si diventa, ecco, un ciarlatano. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Sperando che non tutti si trovino dentro tanti fallimenti…<br /></strong> Certo, non vorrei condannare le persone a sbatterci sempre addosso a queste cose, ci mancherebbe, ma si sa, succede un po’ a tutti e in tanti casi. Oggi viviamo nella dittatura del successo a tutti i costi, che è diventato un obbligo sociale. Per quanto riguarda gli adulti questa è una cosa che li fa star male, ma per i giovani addirittura questo aspetto li stronca. Nel momento in cui devono affrontare la vita e si sentono quest’obbligo, questa pressione così forte di essere sempre migliori, che venga dai genitori o dal mondo che li circonda, è terribile. Ma anche da parte di loro stessi, che si autocondannano con una visione un po’ onirica di entrare nelle vite degli altri, perché è un aspetto deleterio anche di condanna di vivere sempre in una dimensione di sogno altrui. Oramai vediamo che si entra nella case di chiunque, è una molla un po’ sadica della società di questo tempo che porta le persone a non stare bene, a pensare di non essere mai all’altezza delle situazioni. E lo spettacolo racconta questa cosa attraverso due figure: come il regista che ha successo ma che non gli corrisponde, che non lo disseta, perché il successo va riempito di contenuti e lui ha sete di questo, e vorrebbe lasciare un segno nel suo passaggio terreno attraverso qualcosa di meno superficiale. Alla fine questo però lo negherà, non accettando l’ultima sfida. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>E la giovane attrice, alla quale dà volto e corpo una brava Blu Yoshimi? <br /></strong> Lei saggiamente ha un atteggiamento più condivisibile, attraversa il proprio fallimento, si interroga e si libera, anche, di un rapporto un po’ tossico con un padre mancato, inesistente. Che poi sono i peggiori questi rapporti perché non li puoi più nemmeno affrontare. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Con Cardellino srl, la società sua e di Maria Laura Rondanini fate sempre scelte originali, interessanti, che portate a teatro…<br /></strong> Credo che siamo nati per quello, in realtà, anche per condividere quello che facciamo. Così abbiamo messo in piedi questa entità che come primo obiettivo si è dato quello di cercare di trovare parole, temi, linguaggi contemporanei per poter comunicare con il pubblico di oggi, al di là del teatro cosiddetto conservativo, meraviglioso, quello che tutti conosciamo. Le persone hanno bisogno di rispecchiarsi, di discutere, sentirsi chiamati in causa, quello che il teatro ha fatto in tutta la sua storia. In un certo periodo di tempo questo è stato però negato, la drammaturgia contemporanea è stata per un paio di decenni cancellata. L’ultimo grande drammaturgo che abbiamo avuto in Italia è <strong>Annibale Ruccello</strong>, che ha purtroppo avuto un percorso tragico, Nell’immaginario collettivo comunque sia è sempre <strong>Eduardo</strong> il più grande, dal dopoguerra in poi c’è un buco enorme. Non dico che noi riusciamo a riempirlo quel buco però ci proviamo. E poi appunto, come <strong>Ruccello</strong>, qualche eroe c’è stato. Se la proposta è onesta, non troppo calata dall’alto, non troppo seriosa, non autoreferenziale ben venga la nuova drammaturgia. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>L’essere considerato un grande attore aiuta, sul palco c’è sempre un bel vedere.</strong> <br /> Si, ma anche il più bravo pilota ha bisogno di una buona macchina per poter correre, dunque bisogna cercare, trovare belle cose da portare in scena, anche per noi stessi. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Pare che lei soffra, per così dire, di alcune sue insicurezze. Nemmeno il successo dunque colma questi aspetti? <br /></strong> Naturalmente dipende da una persona com’è fatta, il successo può far sì che si venga travolto da una certa <em>hubris</em>, io però ho un tipo di carattere diverso, il successo non lo vedo, piuttosto vedo le cose che ho sbagliato, penso a quello che potevo fare meglio. Non credo sia un atteggiamento sano quello di sentirsi arrivati da qualche parte. Anche ogni sera quando si apre il sipario penso a cosa sto andando a dire al pubblico. Il teatro è un terreno molto limaccioso, paludoso, una specie di sabbie mobili, bisogna saper bene dove mettere i piedi, non essere inghiottito, e questo dà anche un senso di freschezza a questo lavoro. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Chi è un attore? Quando sale sul palco cosa racconta alla gente? <br /></strong> L’attore penso sia un fratello, un demiurgo, qualcuno che assume su di sé, forse, un po’ di malesseri collettivi e cerca in qualche modo di esorcizzarli in scena. Attraverso questo rito collettivo penso trovi una sua funzione ancora sociale.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Francesco Bettin</strong></p></div>INTERVISTA A MATTIA SANTINI - di Michele Olivieri2024-01-20T16:52:18+01:002024-01-20T16:52:18+01:00https://www.sipario.it/attualita/dal-mondo/item/15571-intervista-a-mattia-santini-di-michele-olivieri.htmlMichele Olivieri<div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/0b6659bfc001f5710d52624febc9f0c2_S.jpg" alt="Mattia Santini. Foto Jesper Kiehn" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: justify;"><strong>Mattia Santini</strong> si è formato alla Scuola di Ballo dell’Accademia Teatro alla Scala di Milano (2009-2013), al San Francisco Ballet School (2013-2016) e all’American Ballet Theatre Studio Company (2016-2017). Ha vinto la Medaglia d’oro alla “World Dance Cup” di Bucarest nel 2014. Nel 2019 è stato selezionato per partecipare alla XIII edizione del Concorso Internazionale “The Erik Bruhn Prize”. Dal 2017 ad oggi lavora nel corpo di ballo del “Royal Danish Ballet” di Copenhagen.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Gentile Mattia, cosa rende speciale il corpo di ballo del Royal Danish?<br /></strong>La nostra compagnia è speciale perché siamo molto uniti. Ci consideriamo una grande famiglia e ci sosteniamo a vicenda nell’affrontare le difficoltà sia lavorative che personali.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quali sono i maggiori insegnamenti ricevuti dal Direttore Nikolaj Hübbe?<br /></strong>Il Direttore <strong>Hübbe</strong> è una persona particolarmente disponibile e sempre pronta a consigliarmi nel proseguire al meglio la mia carriera, mi ha insegnato ad avere più fiducia in me stesso e a credere maggiormente nelle mie capacità.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quali ritieni siano i suoi punti di forza vincenti?<br /></strong>Sicuramente ad incoraggiare per fare sempre meglio, differenziando i punti di forza di ogni singolo ballerino.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Come ti accosti all’interiorizzazione dei ruoli da sostenere in scena?<br /></strong>Questo è difficile da spiegare, è una situazione emotiva personale e spontanea ma è sempre un’opportunità fantastica perché puoi essere chiunque, in qualsiasi periodo storico e in caso di balletti moderni ti puoi trasformare mentalmente in un’altra entità.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Qual è stato il percorso che ti ha portato fino a Copenaghen in una delle compagnie di balletto più rinomate al mondo?<br /></strong>Ho frequentato fino al quarto corso l’Accademia del Teatro alla Scala, poi a quattordici anni dopo il <em>summer program</em> alla “San Francisco Ballet School” mi hanno generosamente offerto una borsa di studio per rimanere. A diciassette anni ho fatto un altro summer program presso l’“American Ballet Theatre” e mi hanno proposto di rimanere nel loro programma <em>pre-professional</em> che si chiama “Studio Company”. Dopo un fantastico anno di preparazione sono stato contattato dalla “Royal Danish Ballet” per un contratto da corpo di ballo, e ho accettato senza esitazioni.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Tra i maestri dei tuoi inizi, da bambino, chi ricordi e quando ti sei accorto che tra te e la danza era scoccata la scintilla?<br /></strong>Il Maestro <strong>Paolo Podini</strong> è stato un grandissimo insegnante proprio ai miei inizi e grazie a lui fin da subito è scoccata la scintilla. Sapevo che questa strada era il mio destino e non vedevo l’ora di proseguire nutrendo una passione così grande, che cresceva ad ogni lezione, prova o spettacolo.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Raccontami gli anni trascorsi alla Scuola di Ballo del Teatro alla Scala, qual è stato il momento più bello?<br /></strong>Ricordo in particolare la partecipazione ai balletti con il corpo di ballo scaligero e quelle alle diverse opere del Teatro alla Scala. Ho preso parte ad <em>Aida</em> ed è stata un’emozione indescrivibile. Inoltre desidero ricordare lo spettacolo <em>Immemoria</em> nel programma <em>Trittico Novecento</em> con la coreografia del meraviglioso <strong>Francesco Ventriglia</strong>.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Mentre alla San Francisco Ballet School?<br /></strong>Il momento più difficile è stato l’inizio in una realtà diversa dall’Italia, la lingua che conoscevo solo a livello scolastico, il cambio di abitudini. Il momento più bello è stato quello di aver vissuto insieme a tanti ragazzi provenienti da tutto il mondo che erano nella mia stessa situazione. Cucinare insieme, le serate a guardare i film, lo stretching in casa prima di andare a dormire.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>E all’American Ballet Theatre Studio Company?<br /></strong>L’attimo più entusiasmante è stato incontrare <strong>Roberto Bolle</strong> e <strong>Alessandra Ferri</strong> nella palestra del teatro a fare stretching quando io ero lì a fare lo stesso, ricordo di essere rimasto senza parole nel vedere due stelle mondiali della danza nella stessa struttura. Il momento più difficile è stata la non ammissione in qualità di Apprendista nella compagnia, era di sicuro un goal che volevo conquistare, ma sinceramente senza il rifiuto di questa opportunità non sarei mai dove sono ora, una porta si chiude ma se ne aprono due e bisogna come si dice in inglese “trust the process”.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa ti piace ripensare del giorno del Diploma?<br /></strong>Non ho mai avuto un giorno del Diploma ma sono molto felice di avere avuto numerose esperienze in scuole diverse che mi hanno fatto crescere sia a livello artistico che umano.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>La tua prima volta in assoluto in palcoscenico nelle vesti di danzatore professionista con cosa è avvenuto e in quale teatro?<br /></strong>La mia priva volta risale al 2017 presso il “Royal Danish Theatre” di Copenaghen. Si trattava di uno spettacolo a serata mista con coreografie di <strong>Kylian</strong>. Ho avuto la meravigliosa opportunità di ballare <em>Symphony of Psalms</em> e <em>Sarabande</em>. La ricordo come una serata davvero magica, nel primo pezzo ho danzato con una mia ex compagna della Scuola di Ballo del Teatro alla Scala, quindi è stato un momento “full circle”. Mentre il secondo pezzo ha coinciso con il mio debutto in un ruolo da Solista.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Come hai convissuto con la solitudine, intesa come lontananza da casa e dagli affetti?<br /></strong>Di sicuro è stato davvero molto difficile, anche perché ero ancora piccolo, avendo appena iniziato l’adolescenza. La cosa che mi ha aiutato di più è stata la vicinanza dei miei compagni e colleghi e ovviamente le telefonate e video-chiamate con la mia famiglia. Nel primo periodo chiamavo anche dieci volte al giorno, come mia mamma mi ha sempre detto, non importava l’ora del giorno anche per la differenza di fuso orario, potevo chiamare quando avevo bisogno. La mia famiglia è stata di grande supporto ed è venuta a trovarmi molte volte l’anno, in tutte le città in cui ho vissuto.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Come è recepita la danza in Danimarca dal pubblico ma anche dalle Istituzioni e dalla famiglia Reale?<br /></strong>Il pubblico in Danimarca è meraviglioso, la cultura è sinceramente rispettata e tutti tre i teatri presenti a Copenaghen sono sempre pieni o quasi. Il pubblico è formato da ogni età, e i giovani sono molto interessati, grazie anche all’input dato dalle scuole locali. Abbiamo tanti spettacoli dedicati e riservati solamente ad un pubblico di scuole distribuiti in più occasioni durante l’anno. La Famiglia Reale è molto presente. In diverse occasioni vengono a vedere i nostri balletti e in qualche caso ritornano più volte per la stessa produzione. La Regina <strong>Margrethe</strong> ha trovato la nostra <em>Lady of the Camellias</em> di <strong>John Neumeier</strong> meravigliosa ed ha assistito a ben sei spettacoli di fila.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Come vivi il momento prima di entrare in scena e quali emozioni ti trasmettono gli applausi finali?<br /></strong>Non importa se è il mio primo spettacolo o il mio centesimo, ma ogni volta prima di entrare in scena ho sempre l’adrenalina a mille, ovviamente anche la paura di sbagliare qualche passo o di non offrire una ottima performance. Ma appena sono sotto le luci e davanti al pubblico tutto svanisce e sono solo io che condivido questa grande passione con le persone presenti. Quando esco per gli applausi finali nutro un senso di assoluta compiutezza, sono emozionato e al settimo cielo. Cerco costantemente di guardare e girarmi verso ogni angolo del teatro per fare il mio inchino raggiungendo con lo sguardo ogni spettatore. In quel momento mi sento davvero grato per l’opportunità di svolgere una professione da sogno.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Oltre alla danza che è diventato il tuo lavoro quali altre passioni nutri nella quotidianità e nei momenti liberi?<br /></strong>Ho parecchie passioni al di fuori di questa meravigliosa professione. Cucinare mi piace moltissimo e cerco sempre di migliorare e provare ricette nuove. Amo il canto, uno dei miei sogni in futuro è di cantare e danzare a Broadway, quindi mi sto applicando al meglio per le lezioni di canto professionale. Leggere è un’altra bella necessità, non importa il genere di libro o autore, l’importante è avere sempre con me un libro. Mi piace imparare e osservare a trecentosessanta gradi per crescere come ballerino e come persona.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>A quale ruolo sei più affezionato, tra tutti quelli sostenuti fino ad oggi?<br /></strong>Sicuramente a quello del giullare nel <em>Lago dei Cigni</em>. Questo balletto è il mio preferito ed è stato anche il ruolo che mi ha fatto crescere come artista. Ricordo che quando avevo solo dieci anni mia mamma aveva acquistato un dvd del <em>Lago</em> al Teatro alla Scala, con <strong>Roberto Bolle</strong> e <strong>Svetlana Zakharova</strong>. Ho sognato davvero tanto guardandolo una cinquantina di volte, il mio desiderio era impersonare il principe però mi aveva particolarmente colpito il ruolo del giullare interpretato dal primo ballerino <strong>Antonino Sutera</strong>. Non mi sarei mai immaginato che un domani sarei stato io a ballarlo in un teatro prestigioso in qualità di danzatore professionista.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Secondo te qual è la dote che non può mancare ad un ballerino?<br /></strong>Si parla sempre di doti fisiche nel mondo tersicoreo, senza dubbio sono importanti, ma quelle più grandi per un ballerino sono l’umiltà, l’onestà e l’umanità. La danza deve esprimere gioia e autenticità, non è un circo e deve venire proprio dall’anima.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Visto dall’interno com’è il mondo della danza?<br /></strong>Sinceramente è molto diverso da come tutti lo pensano dall’esterno. Ogni volta che dico che sono un ballerino la gente rimane stupita. Dall’interno considero questo mondo come una grande famiglia, che condivide gli stessi valori e una incredibile passione.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Lo spettacolo di danza che ricordi come il più emozionante al quale hai assistito fino ad oggi come spettatore?<br /></strong>Lo spettacolo più emozionante è stato <em>Coppélia</em> al Teatro alla Scala. Il primissimo spettacolo al quale ho assistito. Avevo otto anni e ricordo perfettamente tutti i dettagli di quella meravigliosa serata. La mia insegnante di danza, <strong>Cinzia Puricelli</strong>, aveva portato me e i miei compagni della scuola <em>Proscaenium</em> di Gallarate a Milano, la grande città dei sogni come la chiamavo io, al Teatro alla Scala come sorpresa. La mia sensazione fu quella di vivere in uno stato etereo. Non ci sono davvero parole per descrivere quell’esperienza.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cos’è per te la perfezione?<br /></strong>La perfezione è molto difficile da spiegare. Quando ho iniziato la carriera la perfezione per me era la tecnica, come eseguivo i passi, quanti giri potevo fare o quanto la mia gamba fosse alta nell’Adagio. Quanto mi sbagliavo, perché più si ha esperienza e più si cresce si impara una maniera completamente diversa di percepire cosa la perfezione sia. Personalmente penso sia il ballare dall’anima, l’interpretare un ruolo non pensando ai passi ma immergendosi nel ruolo completamente, trasformandosi in una persona completamente diversa, senza pensieri o paure. Questa per me è la perfezione.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Come sono strutturate le tue giornate di studio al Teatro Reale?<br /></strong>La giornata inizia sempre alle 10:00 di mattina, con la lezione di riscaldamento per tutta la compagnia. Dalle 11:40 alle 16:00 ci sono le prove e molte volte possono continuare fino alle 18:15, dipende da quante produzioni dobbiamo imparare. Studiamo anche il sabato e certe volte alla domenica, ma abbiamo comunque un giorno libero la settimana. La pausa pranzo è di 45 minuti e abbiamo la fortuna di avere una mensa meravigliosa, quindi ci si sente proprio come a casa. Spesso se rimane del tempo nella giornata, mi fermo al quinto piano nella palestra per lavorare con i fisioterapisti, perché la prevenzione degli infortuni è fondamentale.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Hai un mito della danza al quale ti ispiri?<br /></strong>Mi ispiro moltissimo a <strong>Massimo Murru</strong>, un <em>étoile</em> che per me è davvero l’apice di quello che io definisca perfezione.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Con quale coreografo ti piacerebbe lavorare e con quale ballerina vorresti fare coppia in palcoscenico?<br /></strong>Il coreografo con cui mi piacerebbe lavorare è <strong>William Forsythe</strong>, mentre la ballerina senza ombra di dubbio è <strong>Marianela Nuñez</strong>.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Il pensiero della danza, in senso lato, cosa ti ispira?<br /></strong>Certamente che è immortale. Il bisogno di essa porta con sé emozione ed essenza di vita. C’è stata in passato e ci sarà in futuro. Ballando mi sento come se fossi parte della Storia stessa.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Michele Olivieri</strong></p></div><div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/0b6659bfc001f5710d52624febc9f0c2_S.jpg" alt="Mattia Santini. Foto Jesper Kiehn" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: justify;"><strong>Mattia Santini</strong> si è formato alla Scuola di Ballo dell’Accademia Teatro alla Scala di Milano (2009-2013), al San Francisco Ballet School (2013-2016) e all’American Ballet Theatre Studio Company (2016-2017). Ha vinto la Medaglia d’oro alla “World Dance Cup” di Bucarest nel 2014. Nel 2019 è stato selezionato per partecipare alla XIII edizione del Concorso Internazionale “The Erik Bruhn Prize”. Dal 2017 ad oggi lavora nel corpo di ballo del “Royal Danish Ballet” di Copenhagen.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Gentile Mattia, cosa rende speciale il corpo di ballo del Royal Danish?<br /></strong>La nostra compagnia è speciale perché siamo molto uniti. Ci consideriamo una grande famiglia e ci sosteniamo a vicenda nell’affrontare le difficoltà sia lavorative che personali.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quali sono i maggiori insegnamenti ricevuti dal Direttore Nikolaj Hübbe?<br /></strong>Il Direttore <strong>Hübbe</strong> è una persona particolarmente disponibile e sempre pronta a consigliarmi nel proseguire al meglio la mia carriera, mi ha insegnato ad avere più fiducia in me stesso e a credere maggiormente nelle mie capacità.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quali ritieni siano i suoi punti di forza vincenti?<br /></strong>Sicuramente ad incoraggiare per fare sempre meglio, differenziando i punti di forza di ogni singolo ballerino.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Come ti accosti all’interiorizzazione dei ruoli da sostenere in scena?<br /></strong>Questo è difficile da spiegare, è una situazione emotiva personale e spontanea ma è sempre un’opportunità fantastica perché puoi essere chiunque, in qualsiasi periodo storico e in caso di balletti moderni ti puoi trasformare mentalmente in un’altra entità.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Qual è stato il percorso che ti ha portato fino a Copenaghen in una delle compagnie di balletto più rinomate al mondo?<br /></strong>Ho frequentato fino al quarto corso l’Accademia del Teatro alla Scala, poi a quattordici anni dopo il <em>summer program</em> alla “San Francisco Ballet School” mi hanno generosamente offerto una borsa di studio per rimanere. A diciassette anni ho fatto un altro summer program presso l’“American Ballet Theatre” e mi hanno proposto di rimanere nel loro programma <em>pre-professional</em> che si chiama “Studio Company”. Dopo un fantastico anno di preparazione sono stato contattato dalla “Royal Danish Ballet” per un contratto da corpo di ballo, e ho accettato senza esitazioni.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Tra i maestri dei tuoi inizi, da bambino, chi ricordi e quando ti sei accorto che tra te e la danza era scoccata la scintilla?<br /></strong>Il Maestro <strong>Paolo Podini</strong> è stato un grandissimo insegnante proprio ai miei inizi e grazie a lui fin da subito è scoccata la scintilla. Sapevo che questa strada era il mio destino e non vedevo l’ora di proseguire nutrendo una passione così grande, che cresceva ad ogni lezione, prova o spettacolo.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Raccontami gli anni trascorsi alla Scuola di Ballo del Teatro alla Scala, qual è stato il momento più bello?<br /></strong>Ricordo in particolare la partecipazione ai balletti con il corpo di ballo scaligero e quelle alle diverse opere del Teatro alla Scala. Ho preso parte ad <em>Aida</em> ed è stata un’emozione indescrivibile. Inoltre desidero ricordare lo spettacolo <em>Immemoria</em> nel programma <em>Trittico Novecento</em> con la coreografia del meraviglioso <strong>Francesco Ventriglia</strong>.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Mentre alla San Francisco Ballet School?<br /></strong>Il momento più difficile è stato l’inizio in una realtà diversa dall’Italia, la lingua che conoscevo solo a livello scolastico, il cambio di abitudini. Il momento più bello è stato quello di aver vissuto insieme a tanti ragazzi provenienti da tutto il mondo che erano nella mia stessa situazione. Cucinare insieme, le serate a guardare i film, lo stretching in casa prima di andare a dormire.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>E all’American Ballet Theatre Studio Company?<br /></strong>L’attimo più entusiasmante è stato incontrare <strong>Roberto Bolle</strong> e <strong>Alessandra Ferri</strong> nella palestra del teatro a fare stretching quando io ero lì a fare lo stesso, ricordo di essere rimasto senza parole nel vedere due stelle mondiali della danza nella stessa struttura. Il momento più difficile è stata la non ammissione in qualità di Apprendista nella compagnia, era di sicuro un goal che volevo conquistare, ma sinceramente senza il rifiuto di questa opportunità non sarei mai dove sono ora, una porta si chiude ma se ne aprono due e bisogna come si dice in inglese “trust the process”.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa ti piace ripensare del giorno del Diploma?<br /></strong>Non ho mai avuto un giorno del Diploma ma sono molto felice di avere avuto numerose esperienze in scuole diverse che mi hanno fatto crescere sia a livello artistico che umano.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>La tua prima volta in assoluto in palcoscenico nelle vesti di danzatore professionista con cosa è avvenuto e in quale teatro?<br /></strong>La mia priva volta risale al 2017 presso il “Royal Danish Theatre” di Copenaghen. Si trattava di uno spettacolo a serata mista con coreografie di <strong>Kylian</strong>. Ho avuto la meravigliosa opportunità di ballare <em>Symphony of Psalms</em> e <em>Sarabande</em>. La ricordo come una serata davvero magica, nel primo pezzo ho danzato con una mia ex compagna della Scuola di Ballo del Teatro alla Scala, quindi è stato un momento “full circle”. Mentre il secondo pezzo ha coinciso con il mio debutto in un ruolo da Solista.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Come hai convissuto con la solitudine, intesa come lontananza da casa e dagli affetti?<br /></strong>Di sicuro è stato davvero molto difficile, anche perché ero ancora piccolo, avendo appena iniziato l’adolescenza. La cosa che mi ha aiutato di più è stata la vicinanza dei miei compagni e colleghi e ovviamente le telefonate e video-chiamate con la mia famiglia. Nel primo periodo chiamavo anche dieci volte al giorno, come mia mamma mi ha sempre detto, non importava l’ora del giorno anche per la differenza di fuso orario, potevo chiamare quando avevo bisogno. La mia famiglia è stata di grande supporto ed è venuta a trovarmi molte volte l’anno, in tutte le città in cui ho vissuto.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Come è recepita la danza in Danimarca dal pubblico ma anche dalle Istituzioni e dalla famiglia Reale?<br /></strong>Il pubblico in Danimarca è meraviglioso, la cultura è sinceramente rispettata e tutti tre i teatri presenti a Copenaghen sono sempre pieni o quasi. Il pubblico è formato da ogni età, e i giovani sono molto interessati, grazie anche all’input dato dalle scuole locali. Abbiamo tanti spettacoli dedicati e riservati solamente ad un pubblico di scuole distribuiti in più occasioni durante l’anno. La Famiglia Reale è molto presente. In diverse occasioni vengono a vedere i nostri balletti e in qualche caso ritornano più volte per la stessa produzione. La Regina <strong>Margrethe</strong> ha trovato la nostra <em>Lady of the Camellias</em> di <strong>John Neumeier</strong> meravigliosa ed ha assistito a ben sei spettacoli di fila.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Come vivi il momento prima di entrare in scena e quali emozioni ti trasmettono gli applausi finali?<br /></strong>Non importa se è il mio primo spettacolo o il mio centesimo, ma ogni volta prima di entrare in scena ho sempre l’adrenalina a mille, ovviamente anche la paura di sbagliare qualche passo o di non offrire una ottima performance. Ma appena sono sotto le luci e davanti al pubblico tutto svanisce e sono solo io che condivido questa grande passione con le persone presenti. Quando esco per gli applausi finali nutro un senso di assoluta compiutezza, sono emozionato e al settimo cielo. Cerco costantemente di guardare e girarmi verso ogni angolo del teatro per fare il mio inchino raggiungendo con lo sguardo ogni spettatore. In quel momento mi sento davvero grato per l’opportunità di svolgere una professione da sogno.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Oltre alla danza che è diventato il tuo lavoro quali altre passioni nutri nella quotidianità e nei momenti liberi?<br /></strong>Ho parecchie passioni al di fuori di questa meravigliosa professione. Cucinare mi piace moltissimo e cerco sempre di migliorare e provare ricette nuove. Amo il canto, uno dei miei sogni in futuro è di cantare e danzare a Broadway, quindi mi sto applicando al meglio per le lezioni di canto professionale. Leggere è un’altra bella necessità, non importa il genere di libro o autore, l’importante è avere sempre con me un libro. Mi piace imparare e osservare a trecentosessanta gradi per crescere come ballerino e come persona.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>A quale ruolo sei più affezionato, tra tutti quelli sostenuti fino ad oggi?<br /></strong>Sicuramente a quello del giullare nel <em>Lago dei Cigni</em>. Questo balletto è il mio preferito ed è stato anche il ruolo che mi ha fatto crescere come artista. Ricordo che quando avevo solo dieci anni mia mamma aveva acquistato un dvd del <em>Lago</em> al Teatro alla Scala, con <strong>Roberto Bolle</strong> e <strong>Svetlana Zakharova</strong>. Ho sognato davvero tanto guardandolo una cinquantina di volte, il mio desiderio era impersonare il principe però mi aveva particolarmente colpito il ruolo del giullare interpretato dal primo ballerino <strong>Antonino Sutera</strong>. Non mi sarei mai immaginato che un domani sarei stato io a ballarlo in un teatro prestigioso in qualità di danzatore professionista.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Secondo te qual è la dote che non può mancare ad un ballerino?<br /></strong>Si parla sempre di doti fisiche nel mondo tersicoreo, senza dubbio sono importanti, ma quelle più grandi per un ballerino sono l’umiltà, l’onestà e l’umanità. La danza deve esprimere gioia e autenticità, non è un circo e deve venire proprio dall’anima.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Visto dall’interno com’è il mondo della danza?<br /></strong>Sinceramente è molto diverso da come tutti lo pensano dall’esterno. Ogni volta che dico che sono un ballerino la gente rimane stupita. Dall’interno considero questo mondo come una grande famiglia, che condivide gli stessi valori e una incredibile passione.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Lo spettacolo di danza che ricordi come il più emozionante al quale hai assistito fino ad oggi come spettatore?<br /></strong>Lo spettacolo più emozionante è stato <em>Coppélia</em> al Teatro alla Scala. Il primissimo spettacolo al quale ho assistito. Avevo otto anni e ricordo perfettamente tutti i dettagli di quella meravigliosa serata. La mia insegnante di danza, <strong>Cinzia Puricelli</strong>, aveva portato me e i miei compagni della scuola <em>Proscaenium</em> di Gallarate a Milano, la grande città dei sogni come la chiamavo io, al Teatro alla Scala come sorpresa. La mia sensazione fu quella di vivere in uno stato etereo. Non ci sono davvero parole per descrivere quell’esperienza.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cos’è per te la perfezione?<br /></strong>La perfezione è molto difficile da spiegare. Quando ho iniziato la carriera la perfezione per me era la tecnica, come eseguivo i passi, quanti giri potevo fare o quanto la mia gamba fosse alta nell’Adagio. Quanto mi sbagliavo, perché più si ha esperienza e più si cresce si impara una maniera completamente diversa di percepire cosa la perfezione sia. Personalmente penso sia il ballare dall’anima, l’interpretare un ruolo non pensando ai passi ma immergendosi nel ruolo completamente, trasformandosi in una persona completamente diversa, senza pensieri o paure. Questa per me è la perfezione.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Come sono strutturate le tue giornate di studio al Teatro Reale?<br /></strong>La giornata inizia sempre alle 10:00 di mattina, con la lezione di riscaldamento per tutta la compagnia. Dalle 11:40 alle 16:00 ci sono le prove e molte volte possono continuare fino alle 18:15, dipende da quante produzioni dobbiamo imparare. Studiamo anche il sabato e certe volte alla domenica, ma abbiamo comunque un giorno libero la settimana. La pausa pranzo è di 45 minuti e abbiamo la fortuna di avere una mensa meravigliosa, quindi ci si sente proprio come a casa. Spesso se rimane del tempo nella giornata, mi fermo al quinto piano nella palestra per lavorare con i fisioterapisti, perché la prevenzione degli infortuni è fondamentale.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Hai un mito della danza al quale ti ispiri?<br /></strong>Mi ispiro moltissimo a <strong>Massimo Murru</strong>, un <em>étoile</em> che per me è davvero l’apice di quello che io definisca perfezione.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Con quale coreografo ti piacerebbe lavorare e con quale ballerina vorresti fare coppia in palcoscenico?<br /></strong>Il coreografo con cui mi piacerebbe lavorare è <strong>William Forsythe</strong>, mentre la ballerina senza ombra di dubbio è <strong>Marianela Nuñez</strong>.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Il pensiero della danza, in senso lato, cosa ti ispira?<br /></strong>Certamente che è immortale. Il bisogno di essa porta con sé emozione ed essenza di vita. C’è stata in passato e ci sarà in futuro. Ballando mi sento come se fossi parte della Storia stessa.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Michele Olivieri</strong></p></div>INTERVISTA A MICHELA BARASCIUTTI E STEFANO COSTANTINI - di Michele Olivieri2024-01-10T23:05:50+01:002024-01-10T23:05:50+01:00https://www.sipario.it/attualita/dal-mondo/item/15562-intervista-a-michela-barasciutti-e-stefano-costantini-di-michele-olivieri.htmlMichele Olivieri<div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/0d37df02671d22554592ae442ecefd9e_S.jpg" alt="Michela Barasciutti e Stefano Costantini. Foto Francesco Barasciutti" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: justify;"><strong>A fine 2023 il “Festival Veneziaindanza” ha festeggiato il suo quindicesimo anniversario dalla fondazione, qual è il bilancio?<br /></strong>Possiamo dire molto positivo e un ottimo traguardo per un Festival. Fino ad ora è stato un bellissimo percorso ricco di soddisfazioni. Il Teatro Malibran è diventato una “casa accogliente per la Danza”, un appuntamento atteso nel mese di novembre, per la città di Venezia e per il pubblico che ci ripaga con la propria presenza.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Mentre il bilancio della quindicesima edizione appena conclusa? <br /></strong>Il bilancio positivo ce lo ha testimoniato il pubblico partecipando numerosissimo a tutti e tre gli appuntamenti, così diversi nel linguaggio e, personalmente, siamo molto felici che ripongano la loro fiducia, conquistata in questi anni amando la diversità nella proposta del cartellone.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>C’è un elemento che più di altri ha tenuto insieme i lavori di questa ultima edizione?<br /></strong>Non c’è un elemento che abbia tenuto assieme la proposta ma, nell’autonomia dei lavori, sicuramente l’unicità e la ricchezza artistica. Questa ultima edizione è stata anche caratterizzata da un evento unico creato in esclusiva per il festival che con grande soddisfazione siamo riusciti a ospitare e che avevamo cercato di programmare da tempo i “Solisti GaertnerPlatz Theater” di Monaco con la direzione artistica di <strong>Karl Alfred Schreiner</strong>, in esclusiva europea.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>A distanza di due anni lo spettacolo su Maria Callas ha nuovamente ottenuto buone critiche e successo di pubblico, qual è stato il valore aggiunto della ripresa?<br /></strong>“Io Maria Lei Callas” ha debuttato al “Festival VeneziainDanza” nel 2021, è stato poi ospitato in molti teatri e festival e quest’anno, essendo il centenario della nascita di Maria Callas, abbiamo voluto riproporlo per omaggiarla nella nostra città con la danza. Un valore aggiunto è dato dal fatto che, sia io in qualità di coreografa che i miei danzatori e tutto il team che accompagna questa creazione, continuiamo a viverla con verità e rispetto, proseguendo in questo viaggio con amore ed energia e rendendo ogni sfumatura preziosa pur nella sua evoluzione. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>L’idea di Veneziaindanza come nasce e chi sono stati in questi lunghi anni in crescendo i maggiori sostenitori?<br /></strong>Dal 2000 ad oggi abbiamo organizzato ben 28 rassegne, festival e vetrine dedicate ai nuovi coreografi nel territorio veneziano. “VeneziainDanza” è nata nel 2015 su un progetto ministeriale che poi ha preso la sua forma e forza grazie all’ospitalità al Teatro Malibran su invito del Teatro La Fenice con il quale a tutt’oggi abbiamo una preziosa collaborazione. Oltre ai partner istituzionali e privati imprescindibili, il maggior sostegno lo abbiamo sempre ricevuto dal nostro pubblico. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Come si è evoluto nel tempo il festival?<br /></strong>Sicuramente con l’esperienza acquisita nel valutare anno dopo anno la possibilità di proporre al pubblico Compagnie e lavori da scoprire, incuriosendolo proponendo prime assolute create e pensate appositamente per il festival, Gala e Compagnie nazionali e internazionali con diversi linguaggi e scritture. Il pubblico ha potuto conoscere danzatori che ora sono diventati étoile come <strong>Davide Dato</strong>, <strong>Nicoletta Manni</strong>, <strong>Valentine Colasante</strong> e progetti che hanno debuttato al Festival e poi hanno girato il mondo. Come direzione artistica ho voluto da sempre mettere il “focus” sul talento italiano (danzatori, coreografi, direttori artistici) che a volte vengono poco rappresentati in Italia e/o sono più conosciuti all’estero.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>La vostra compagnia gode di una buona visibilità nazionale, essendosi ritagliata un repertorio e una offerta singolare. Cosa vi piace ricordare e sottolineare del suo percorso artistico?<br /></strong>Non è facile rispondere perché trentatré anni dalla fondazione della compagnia “Tocnadanza” sono un pezzo della nostra vita. Siamo orgogliosi di averla fondata con la residenza nella nostra città Venezia dove abbiamo, successivamente, fondato il “Centro Produzioni Danza” punto di riferimento professionale per danzatori e coreografi. In questo lungo e ricco viaggio della Compagnia molte sono state le collaborazioni e coproduzioni con prestigiose Istituzioni e festival quali il Teatro La Fenice, La Biennale di Venezia, il Ravello Festival, la Camerata Musicale Barese, la Peggy Guggenheim Collection e molti altri. L’incontro con tanti danzatori/artisti che hanno fatto parte di “Tocnadanza” e che ne fanno parte a tutt’oggi ci hanno arricchito e stimolato. Tu <strong>Michele</strong> parli di “offerta singolare” e ti ringraziamo per questa riflessione che ci poni. Nell’avvicinarmi come coreografa ad una creazione ho sempre seguito il mio istinto e la mia curiosità, a parte alcune commissioni che mi sono state richieste, e penso sia questo lo stimolo che mi ha aiutato a credere e sentire nel profondo l’atto creativo e di conseguenza le proposte che sino ad ora mi hanno accompagnato e hanno segnato il percorso di “Tocnadanza”.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Come si organizza un Festival di successo come il vostro?<br /></strong>L’organizzazione di un festival è una macchina complessa che si mette in moto: la direzione artistica ne è il motore e tutto l’apparato tecnico, organizzativo, amministrativo e ufficio stampa ne è la struttura. C’è un grande lavoro, particolare cura anche nei dettagli, divulgazione, accoglienza sia per le compagnie ospitate che per il pubblico, il tutto generato dal rispetto e amore per questa forma d’Arte che è la Danza.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Chi è il pubblico che assiste ai canonici tre spettacoli che compongono ogni edizione?<br /></strong>È sicuramente un pubblico variegato che abbraccia tre generazioni. È un pubblico veneziano e del territorio, sia regionale che da fuori regione con una forte presenza di turisti di qualità.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Avete educato lo spettatore a differenti linguaggi e ne siete stati ripagati in termini di affetto e di partecipazione, tra tutte qual è la maggiore soddisfazione personale ed umana riscontrata?<br /></strong>Sicuramente la fiducia conquistata nel sentire e nel vedere come la Danza è amata, desiderata e necessaria.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Qual è il cuore del lavoro di un direttore artistico e quello di un direttore organizzativo?<br /></strong>Sono due lavori distinti ma che vanno assolutamente insieme, in simbiosi. Il direttore organizzativo deve realizzare da un punto di vista operativo la scelta del direttore artistico e per fare questo bisogna sempre lavorare in team. L’organizzazione deve provvedere a tutto il sistema delle esigenze tecniche, logistiche e coordinare l’ufficio stampa oltre a controllare la parte economica. Il cuore del lavoro della direttrice artistica è sicuramente nella scelta del cartellone, nel capire se il flusso diverso degli spettacoli rappresentati possa accostarsi o addirittura allontanarsi per poi generare stupore nel comprendere come la danza ha mille sfaccettature.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Avete il privilegio di far ritagliare al pubblico un momento in cui fermarsi ad ascoltare cosa l’altro ha da esprimere per condividere inedite prospettive. Questo investimento emotivo è il vero focus del festival?<br /></strong>È una grande cosa poter condividere, ascoltare le sensazioni e motivazioni dopo aver visto uno spettacolo, avvenimento che succede sempre e con trasporto. Amiamo molto sentire le diverse reazioni e quello che ne scaturisce con una grande passione; per noi questo è lo scopo divulgativo, formativo ed emotivo del festival.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Il rapporto con le istituzioni influenza le scelte di ideazione artistica?<br /></strong>In tutti questi anni sono stati numerosi i partner pubblici dal MIC, alla Regione Veneto, al Comune di Venezia oltre ai partner privati, ma mai si è verificata alcuna interferenza e la proposta artistica è stata dettata solamente dalle nostre scelte.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Da quando frequento “Veneziaindanza” ho notato che ha sempre mantenuto un’attenzione, oltre che alla componente artistica, ai giovani, dico bene?<br /></strong>Ci fa piacere <strong>Michele</strong> che tu l’abbia notato, sicuramente guardiamo alla tradizione, alla storia, e al presente ma per noi non è possibile esonerarsi dal dare spazio alle giovani generazioni, poiché, è inutile dirlo, sono il futuro non solo dell’arte, ma anche della società.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quale è il rapporto con gli spettatori che un festival come questo intende creare? <br /></strong>Soprattutto di fidelizzazione. Ormai siamo alla XV edizione e il pubblico ci segue numeroso fidandosi della qualità che andiamo a proporre pur nella diversità stilistica.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Riguardo al rapporto tra teatro e contesto urbano: che cosa significano la danza e il Festival per la città di Venezia?<br /></strong>Venezia in passato è stata una capitale della danza ed ha un presente oggi diverso. In questa città operano delle grandi istituzioni come la Biennale e il Teatro La Fenice e penso che noi ci siamo ritagliati con il nostro Festival un altro luogo, un’altra possibilità di incontro e conoscenza, tanto che negli ultimi anni ci viene spesso richiesto di fare due sessioni in un anno o raddoppiare gli appuntamenti. La danza è molto amata e richiesta dal pubblico, e credo che in questi anni il Festival abbia creato un luogo dove voler ritornare.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>In un ambito come quello dello spettacolo dal vivo, che cosa ne pensate del rapporto tra eventi in presenza e digitale? Il digitale può essere una risorsa dopo l’avvento della pandemia?<br /></strong>È sicuramente una risorsa ma in altri contesti definiti. Lo spettacolo dal vivo esiste nel momento della sua rappresentazione, si sostiene “Qui e Ora” nel rapporto diretto tra il pubblico e gli artisti, creando quel flusso sospeso di energia di scambio che determina quella magia che è propria dello spettacolo dal vivo.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Pensate che la danza e la cultura del balletto, abbiano ancora una potenza che li renda necessari di avere un impatto positivo sulla vita delle persone?<br /></strong>La Danza ha un linguaggio universale e trasversale con le altre Arti. “L’Arte è la creazione di un ordine denso di significato che offre un rifugio all’insopportabile confusione della realtà esterna” (Rudolf Arnheim).</p> <p style="text-align: justify;"><strong>La cultura sembra spesso messa ai margini soprattutto di questi tempi, ma in realtà è più diffusa di quello che noi crediamo, ne è la prova lampante “Veneziaindanza”?<br /></strong>“Veneziaindanza” forse testimonia la necessità che l’essere umano ha di condividere sia l’arte, la bellezza, il piacere e il confronto con l’altro in uno stesso luogo, vale a dire il teatro, che è la cosa più importante che l’uomo ha inventato, cioè raccontare l’uomo attraverso l’uomo davanti l’uomo. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Voi proponete da anni anche una Vetrina dedicata ai coreografi e ai danzatori. La giovane danza contemporanea si nutre ancora del passato? Cioè di coloro che hanno innovato e scritto la storia della danza oppure nascono sempre più inediti linguaggi senza alcun rimando?<br /></strong>Noi siamo inevitabilmente l’elaborazione del passato in una catena generazionale dove tutto si trasforma. Così la giovane danza contemporanea non è altro che questo: ha condiviso, ha inconsapevolmente sedimentato, ha elaborato, rifiutato, contrastato. È lo specchio della società e da questa viene influenzata creando la necessità di ricerca nel linguaggio autoriale.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa vi affascina e vi colpisce maggiormente nella danza oggi?<br /></strong>La continua evoluzione e trasformazione e se dobbiamo essere sinceri vediamo una sempre maggiore attenzione anche alla tradizione e al passato come forma di conoscenza, arricchimento e avvicinamento culturale.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Qualche altro obiettivo su cui avete intenzione di lavorare negli anni a venire?<br /></strong>Sono tanti gli obiettivi ma vorremmo, se riusciremo a realizzarli, che fossero una sorpresa.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Michele Olivieri</strong></p></div><div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/0d37df02671d22554592ae442ecefd9e_S.jpg" alt="Michela Barasciutti e Stefano Costantini. Foto Francesco Barasciutti" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: justify;"><strong>A fine 2023 il “Festival Veneziaindanza” ha festeggiato il suo quindicesimo anniversario dalla fondazione, qual è il bilancio?<br /></strong>Possiamo dire molto positivo e un ottimo traguardo per un Festival. Fino ad ora è stato un bellissimo percorso ricco di soddisfazioni. Il Teatro Malibran è diventato una “casa accogliente per la Danza”, un appuntamento atteso nel mese di novembre, per la città di Venezia e per il pubblico che ci ripaga con la propria presenza.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Mentre il bilancio della quindicesima edizione appena conclusa? <br /></strong>Il bilancio positivo ce lo ha testimoniato il pubblico partecipando numerosissimo a tutti e tre gli appuntamenti, così diversi nel linguaggio e, personalmente, siamo molto felici che ripongano la loro fiducia, conquistata in questi anni amando la diversità nella proposta del cartellone.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>C’è un elemento che più di altri ha tenuto insieme i lavori di questa ultima edizione?<br /></strong>Non c’è un elemento che abbia tenuto assieme la proposta ma, nell’autonomia dei lavori, sicuramente l’unicità e la ricchezza artistica. Questa ultima edizione è stata anche caratterizzata da un evento unico creato in esclusiva per il festival che con grande soddisfazione siamo riusciti a ospitare e che avevamo cercato di programmare da tempo i “Solisti GaertnerPlatz Theater” di Monaco con la direzione artistica di <strong>Karl Alfred Schreiner</strong>, in esclusiva europea.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>A distanza di due anni lo spettacolo su Maria Callas ha nuovamente ottenuto buone critiche e successo di pubblico, qual è stato il valore aggiunto della ripresa?<br /></strong>“Io Maria Lei Callas” ha debuttato al “Festival VeneziainDanza” nel 2021, è stato poi ospitato in molti teatri e festival e quest’anno, essendo il centenario della nascita di Maria Callas, abbiamo voluto riproporlo per omaggiarla nella nostra città con la danza. Un valore aggiunto è dato dal fatto che, sia io in qualità di coreografa che i miei danzatori e tutto il team che accompagna questa creazione, continuiamo a viverla con verità e rispetto, proseguendo in questo viaggio con amore ed energia e rendendo ogni sfumatura preziosa pur nella sua evoluzione. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>L’idea di Veneziaindanza come nasce e chi sono stati in questi lunghi anni in crescendo i maggiori sostenitori?<br /></strong>Dal 2000 ad oggi abbiamo organizzato ben 28 rassegne, festival e vetrine dedicate ai nuovi coreografi nel territorio veneziano. “VeneziainDanza” è nata nel 2015 su un progetto ministeriale che poi ha preso la sua forma e forza grazie all’ospitalità al Teatro Malibran su invito del Teatro La Fenice con il quale a tutt’oggi abbiamo una preziosa collaborazione. Oltre ai partner istituzionali e privati imprescindibili, il maggior sostegno lo abbiamo sempre ricevuto dal nostro pubblico. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Come si è evoluto nel tempo il festival?<br /></strong>Sicuramente con l’esperienza acquisita nel valutare anno dopo anno la possibilità di proporre al pubblico Compagnie e lavori da scoprire, incuriosendolo proponendo prime assolute create e pensate appositamente per il festival, Gala e Compagnie nazionali e internazionali con diversi linguaggi e scritture. Il pubblico ha potuto conoscere danzatori che ora sono diventati étoile come <strong>Davide Dato</strong>, <strong>Nicoletta Manni</strong>, <strong>Valentine Colasante</strong> e progetti che hanno debuttato al Festival e poi hanno girato il mondo. Come direzione artistica ho voluto da sempre mettere il “focus” sul talento italiano (danzatori, coreografi, direttori artistici) che a volte vengono poco rappresentati in Italia e/o sono più conosciuti all’estero.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>La vostra compagnia gode di una buona visibilità nazionale, essendosi ritagliata un repertorio e una offerta singolare. Cosa vi piace ricordare e sottolineare del suo percorso artistico?<br /></strong>Non è facile rispondere perché trentatré anni dalla fondazione della compagnia “Tocnadanza” sono un pezzo della nostra vita. Siamo orgogliosi di averla fondata con la residenza nella nostra città Venezia dove abbiamo, successivamente, fondato il “Centro Produzioni Danza” punto di riferimento professionale per danzatori e coreografi. In questo lungo e ricco viaggio della Compagnia molte sono state le collaborazioni e coproduzioni con prestigiose Istituzioni e festival quali il Teatro La Fenice, La Biennale di Venezia, il Ravello Festival, la Camerata Musicale Barese, la Peggy Guggenheim Collection e molti altri. L’incontro con tanti danzatori/artisti che hanno fatto parte di “Tocnadanza” e che ne fanno parte a tutt’oggi ci hanno arricchito e stimolato. Tu <strong>Michele</strong> parli di “offerta singolare” e ti ringraziamo per questa riflessione che ci poni. Nell’avvicinarmi come coreografa ad una creazione ho sempre seguito il mio istinto e la mia curiosità, a parte alcune commissioni che mi sono state richieste, e penso sia questo lo stimolo che mi ha aiutato a credere e sentire nel profondo l’atto creativo e di conseguenza le proposte che sino ad ora mi hanno accompagnato e hanno segnato il percorso di “Tocnadanza”.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Come si organizza un Festival di successo come il vostro?<br /></strong>L’organizzazione di un festival è una macchina complessa che si mette in moto: la direzione artistica ne è il motore e tutto l’apparato tecnico, organizzativo, amministrativo e ufficio stampa ne è la struttura. C’è un grande lavoro, particolare cura anche nei dettagli, divulgazione, accoglienza sia per le compagnie ospitate che per il pubblico, il tutto generato dal rispetto e amore per questa forma d’Arte che è la Danza.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Chi è il pubblico che assiste ai canonici tre spettacoli che compongono ogni edizione?<br /></strong>È sicuramente un pubblico variegato che abbraccia tre generazioni. È un pubblico veneziano e del territorio, sia regionale che da fuori regione con una forte presenza di turisti di qualità.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Avete educato lo spettatore a differenti linguaggi e ne siete stati ripagati in termini di affetto e di partecipazione, tra tutte qual è la maggiore soddisfazione personale ed umana riscontrata?<br /></strong>Sicuramente la fiducia conquistata nel sentire e nel vedere come la Danza è amata, desiderata e necessaria.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Qual è il cuore del lavoro di un direttore artistico e quello di un direttore organizzativo?<br /></strong>Sono due lavori distinti ma che vanno assolutamente insieme, in simbiosi. Il direttore organizzativo deve realizzare da un punto di vista operativo la scelta del direttore artistico e per fare questo bisogna sempre lavorare in team. L’organizzazione deve provvedere a tutto il sistema delle esigenze tecniche, logistiche e coordinare l’ufficio stampa oltre a controllare la parte economica. Il cuore del lavoro della direttrice artistica è sicuramente nella scelta del cartellone, nel capire se il flusso diverso degli spettacoli rappresentati possa accostarsi o addirittura allontanarsi per poi generare stupore nel comprendere come la danza ha mille sfaccettature.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Avete il privilegio di far ritagliare al pubblico un momento in cui fermarsi ad ascoltare cosa l’altro ha da esprimere per condividere inedite prospettive. Questo investimento emotivo è il vero focus del festival?<br /></strong>È una grande cosa poter condividere, ascoltare le sensazioni e motivazioni dopo aver visto uno spettacolo, avvenimento che succede sempre e con trasporto. Amiamo molto sentire le diverse reazioni e quello che ne scaturisce con una grande passione; per noi questo è lo scopo divulgativo, formativo ed emotivo del festival.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Il rapporto con le istituzioni influenza le scelte di ideazione artistica?<br /></strong>In tutti questi anni sono stati numerosi i partner pubblici dal MIC, alla Regione Veneto, al Comune di Venezia oltre ai partner privati, ma mai si è verificata alcuna interferenza e la proposta artistica è stata dettata solamente dalle nostre scelte.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Da quando frequento “Veneziaindanza” ho notato che ha sempre mantenuto un’attenzione, oltre che alla componente artistica, ai giovani, dico bene?<br /></strong>Ci fa piacere <strong>Michele</strong> che tu l’abbia notato, sicuramente guardiamo alla tradizione, alla storia, e al presente ma per noi non è possibile esonerarsi dal dare spazio alle giovani generazioni, poiché, è inutile dirlo, sono il futuro non solo dell’arte, ma anche della società.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quale è il rapporto con gli spettatori che un festival come questo intende creare? <br /></strong>Soprattutto di fidelizzazione. Ormai siamo alla XV edizione e il pubblico ci segue numeroso fidandosi della qualità che andiamo a proporre pur nella diversità stilistica.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Riguardo al rapporto tra teatro e contesto urbano: che cosa significano la danza e il Festival per la città di Venezia?<br /></strong>Venezia in passato è stata una capitale della danza ed ha un presente oggi diverso. In questa città operano delle grandi istituzioni come la Biennale e il Teatro La Fenice e penso che noi ci siamo ritagliati con il nostro Festival un altro luogo, un’altra possibilità di incontro e conoscenza, tanto che negli ultimi anni ci viene spesso richiesto di fare due sessioni in un anno o raddoppiare gli appuntamenti. La danza è molto amata e richiesta dal pubblico, e credo che in questi anni il Festival abbia creato un luogo dove voler ritornare.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>In un ambito come quello dello spettacolo dal vivo, che cosa ne pensate del rapporto tra eventi in presenza e digitale? Il digitale può essere una risorsa dopo l’avvento della pandemia?<br /></strong>È sicuramente una risorsa ma in altri contesti definiti. Lo spettacolo dal vivo esiste nel momento della sua rappresentazione, si sostiene “Qui e Ora” nel rapporto diretto tra il pubblico e gli artisti, creando quel flusso sospeso di energia di scambio che determina quella magia che è propria dello spettacolo dal vivo.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Pensate che la danza e la cultura del balletto, abbiano ancora una potenza che li renda necessari di avere un impatto positivo sulla vita delle persone?<br /></strong>La Danza ha un linguaggio universale e trasversale con le altre Arti. “L’Arte è la creazione di un ordine denso di significato che offre un rifugio all’insopportabile confusione della realtà esterna” (Rudolf Arnheim).</p> <p style="text-align: justify;"><strong>La cultura sembra spesso messa ai margini soprattutto di questi tempi, ma in realtà è più diffusa di quello che noi crediamo, ne è la prova lampante “Veneziaindanza”?<br /></strong>“Veneziaindanza” forse testimonia la necessità che l’essere umano ha di condividere sia l’arte, la bellezza, il piacere e il confronto con l’altro in uno stesso luogo, vale a dire il teatro, che è la cosa più importante che l’uomo ha inventato, cioè raccontare l’uomo attraverso l’uomo davanti l’uomo. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Voi proponete da anni anche una Vetrina dedicata ai coreografi e ai danzatori. La giovane danza contemporanea si nutre ancora del passato? Cioè di coloro che hanno innovato e scritto la storia della danza oppure nascono sempre più inediti linguaggi senza alcun rimando?<br /></strong>Noi siamo inevitabilmente l’elaborazione del passato in una catena generazionale dove tutto si trasforma. Così la giovane danza contemporanea non è altro che questo: ha condiviso, ha inconsapevolmente sedimentato, ha elaborato, rifiutato, contrastato. È lo specchio della società e da questa viene influenzata creando la necessità di ricerca nel linguaggio autoriale.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa vi affascina e vi colpisce maggiormente nella danza oggi?<br /></strong>La continua evoluzione e trasformazione e se dobbiamo essere sinceri vediamo una sempre maggiore attenzione anche alla tradizione e al passato come forma di conoscenza, arricchimento e avvicinamento culturale.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Qualche altro obiettivo su cui avete intenzione di lavorare negli anni a venire?<br /></strong>Sono tanti gli obiettivi ma vorremmo, se riusciremo a realizzarli, che fossero una sorpresa.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Michele Olivieri</strong></p></div>INTERVISTA A FRANCESCO ZECCA - di Francesco Bettin2024-01-09T12:34:10+01:002024-01-09T12:34:10+01:00https://www.sipario.it/attualita/dal-mondo/item/15559-intervista-a-francesco-zecca-di-francesco-bettin.htmlFrancesco Bettin<div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/93abc951c9b11936ac34725b205265c5_S.jpg" alt="Francesco Zecca" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: justify;"><strong>Francesco Zecca</strong>, pugliese, è attore e regista, e si è diplomato al Centro Internazionale La Cometa, di Roma. Da anni fa teatro, e da un po’ di tempo collabora assiduamente con <strong>Lucrezia Lante Della Rovere</strong> (ma non solo). E’ stato diretto, tra gli altri, da <strong>Massimiliano Bruno</strong>, <strong>Pierpaolo Sepe</strong>, <strong>Duccio Camerini</strong>, <strong>Emma</strong> <strong>Dante</strong>, e ha a sua volta diretto spettacoli come <em>Il mondo non mi deve nulla</em>, di <strong>Massimo Carlotto</strong>, con <strong>Pamela Villoresi</strong>, <em>Come tu mi vuoi</em>, <em>Malamore</em> e <em>Io sono Misia</em>, con la <strong>Della Rovere</strong>, e ancora con l’attrice protagonista ha messo in scena un adattamento raffinato de <em>L’uomo dal fiore in bocca</em> di <strong>Pirandello</strong>. Attivo anche al cinema, <strong>Zecca</strong> è dotato di uno stile personale, come regista, piacevole, rigoroso. Lo abbiamo incontrato e intervistato, la sua è una simpatia che travolge, colma di estro come un artista puro, pirotenico.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Francesco, come nasce la tua passione per il teatro e lo spettacolo? <br /></strong> Mi viene in mente subito l’immagine di un’estate di molti anni fa. Tutto cominciava in giorni afosi di agosto in una località di mare, in Puglia, dove anche la sabbia scottava troppo per stare fermi e il sole non dava pace. La curiosità è un tratto distintivo che mi porto dietro da quando ero bambino: l’unica occupazione in quei momenti era spiare le mie zie e cugine sventolarsi e cucinare, e allora le copiavo e facevo dei siparietti comici. Vedere la gioia e la commozione nei loro occhi mi rendeva euforico…Quando facevamo la salsa di pomodoro ogni anno facevo la regia di qualche storia, con tutta la famiglia coinvolta. Era diventato un rito ….tutto questo accadeva quando ero piccolissimo, avrò avuto 8 anni al massimo. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Non avessi fatto questo mestiere dove sarebbe stato possibile trovarti? <br /></strong> Sicuramente al ristorante della mia famiglia, in piedi da oltre 50 anni, a rimestare quel succo di pomodoro di cui sopra. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Fare teatro oggi è sempre più un atto politico, che apre la mente? <br /></strong> Fare teatro è un atto politico di per sé, perché ha a che fare con la vita e tutto ciò che è vita è atto politico. Per me il Teatro è azione, un fare, un porre in essere. Un dare vita. Scegliere di fare teatro oggi è pericoloso, ed è libertà di sperimentare e di sbagliare, senza paura. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cinema, teatro, tv, fai un po’ di tutto. In Italia si lavora bene o a tuo parere ci sono delle criticità che andrebbero affrontate da parte politica, per sostenere tutti quelli che lavorano in questo ambito? <br /></strong> Guarda, in questo mestiere l’unica cosa di cui abbiamo veramente bisogno è il tempo. Il tempo per progettare, il tempo per provare, per rischiare, per avere l’opportunità di crescere. E’ proprio il tempo che è diventato un lusso, perché economicamente nessuno se lo può più permettere. Perciò è sempre più necessario continuare a fare arte e prendersi la responsabilità di questa azione. In questo senso non dovrebbe esserci separazione tra politica che sostiene e arte che crea, perché sono due facce della stessa medaglia. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>A cosa stai lavorando ora?</strong> <br /> Sto preparando lo spettacolo <em>Brutta - storia di un corpo come tanti</em>, testo e adattamento teatrale di <strong>Giulia Blasi</strong>, tratto dal suo omonimo romanzo, con Cristina Vaccaro. E’ uno spettacolo che indaga il rapporto del corpo della donna in relazione alla bellezza: la domanda che ruota intorno all’opera è: <em>chi ha detto che per occupare uno spazio pubblico per vivere appieno in società si debba per forza essere belle?</em>. Poi ho altri progetti in cantiere, ma è troppo presto per parlarne. Sono molto scaramantico, lo ammetto, infatti mi sto toccando uno dei 3 corni napoletani che porto al collo. Essere scaramantico è da ignoranti, non esserlo però porta male. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>C’è qualche artista anche del passato, che ti ha condizionato, che hai osservato molto, da cui hai cercato di apprendere qualcosa? Un artista che ti ha affascinato? <br /></strong> Ce ne sono tanti e mi diverte entrare dentro la poetica di un artista che amo, ma l’ossessione che mi accompagna da sempre è <strong>Charlie Chaplin</strong>: il suo essere nostalgico, comico e sentimentale allo stesso tempo. La fragilità del clown ha qualcosa che mi risuona dentro e trovo che sia un modo straordinario di raccontare il mondo. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Come definisci il teatro, Francesco? Cos’è per te? <br /></strong> E’ il luogo dell’anima, lo spazio dove mi permetto di essere me stesso, l’unico posto che permette di essere autentico oltre ogni giudizio. Il luogo che permette di sognare, d’altronde cos’è un uomo senza i propri sogni? </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Che spettatore sei? Vai a teatro a vedere i colleghi? Hai un genere preferito? <br /></strong> Quando vado a teatro spero di non dire all’uscita: che bella regia, che bel testo, che brava attrice o attore. Spero di dire piuttosto: che grande serata! Sono uno spettatore che ama sedersi e godersi lo spettacolo senza troppe pretese, anche quando a volte, ammetto che preferirei stare a casa con il mio adorato cane. Non ho un genere preferito, non mi piace neanche parlare di genere ma piuttosto di storie, è lì infatti che vengo catturato. Se una di queste storie viene raccontata bene, accade la magia. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>C’è sacralità, e quanta, nella recitazione? <br /></strong> Tantissima, per me. Il palcoscenico è sacro, nel momento in cui si sale c’è una parte un po’ esoterica. L’amore è sacro, ciò che un umano racconta a un altro suo simile diventa automaticamente sacrale. E nel teatro, nella recitazione è qualcosa di insito, anche se dura solo un momento, magari, una battuta soltanto. La sacralità è dunque anche salvezza, non è il fine ma il mezzo. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Non è un mestiere come un altro, dunque, lavorare nel teatro, nello spettacolo? <br /></strong> No, non lo è. Tutti i lavori hanno una responsabilità, questo in particolare ha quella di aver a che fare con l’animo dell’umanità, è come un’operazione a cuore aperto. Si ha a che fare con le vite, e si ha una forza potente, con la semplicità, però, di questa operazione. E’ una missione, comunque. Dove bisogna metterci semplicità, non credere di stare a fare cose importanti per il mondo. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Sei regista ma anche attore…le due anime possono condividere facilmente? <br /></strong> A volte litigano, però si amano molto, sai, la convivenza è sempre molto difficile. Una deve accettare le piccole meschinità dell’altra, per poi però ritrovarsi mano nella mano ed amarsi ancora. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Un sogno da realizzare? <br /></strong> Solo uno? Come diceva una grande bisogna <em>svuotare tutti i cassetti dai sogni e metterli sulle mensole, così li puoi guardare ogni giorno</em>. Ma bisogna avere coraggio per farlo perché a volte guardare i propri sogni dritti negli occhi fa paura. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Pensi che prima o poi si dovrà affrontare, e ripensare il sistema teatro? Vedremo un cambiamento che innoverà? <br /></strong> Dopo il tremendo periodo che tutti abbiamo vissuto qualche anno fa qualcosa è cambiato. In realtà non stiamo riuscendo a trovare ancora una quadra rispetto al fatto che il teatro ha un potere, che racconta l’uomo davanti all’uomo. Durante la pandemia si’, c’erano i live, gli streaming ma il cinema comunque si faceva, con tutte le regole. Il problema teatrale è che c’è una parte di mercato che ancora pensa che serva il cosiddetto nome famoso per fare uno spettacolo, quando invece il pubblico ha bisogno solo di spettacoli belli, dove poter sognare, vedersi raccontare. Come regista mi propongono certi spettacoli perché hanno vendibilità, che è una cosa che sta diventando ridicola a mio parere. C’è bisogno di avere un pubblico vivo anche nei piccoli paesini, di persone illuminate, che riescono a vedere il teatro, la cultura, come una possibilità e non per la vendibilità. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>E’ una cosa solo italiana? <br /></strong> Da un po’ di tempo mi sto confrontando anche con un mercato internazionale, e la cosa strana è che qui da noi c’è una divisione: il teatro fatto bene, quello per intenderci d’innovazione che non può fare soldi, e il teatro commerciale. Ecco, questa è una cosa da cambiare sicuramente, è chiaro che si deve guadagnare ma facendo tutto. Oltre a tutte le battaglie che stiamo facendo per essere riconosciuti come categoria, bisognerebbe anche cominciare a guardare all’estero, anche i produttori, per capire come trasformare quelle produzioni, non copiarle. Il teatro non potrà mai morire, nemmeno il suo stesso sistema, bisognerà cambiarlo e questo accadrà. Speriamo solo ci siano persone illuminate a fare ciò. Comunque siamo tutti noi che dobbiamo agire in questo senso. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Forse si è un po’ prigionieri di alcuni schemi? <br /></strong> Nella nostra testa siamo ancora prigionieri di alcune battaglie, degli anni Settanta, l’avanguardia, dove si era sempre contro qualcosa. Invece bisogna lavorare per le cose, non contro. Mi piace citare una frase di <strong>Madre Teresa di Calcutta</strong> che diceva <em>non mi invitate a una marcia contro la guerra ma invitatemi a una marcia per la pace</em>. E’ l’atteggiamento che conta, meglio lavorare per, non contro il sistema, altrimenti c’è solo un obiettivo da combattere. Ci nascondiamo sempre dietro la provincialità, che in qualche modo è la nostra comfort zone. In realtà siamo più europei di quel che non capiamo. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa auguri a te stesso e ai tuoi colleghi, a chi fa il tuo mestiere? <br /></strong> Di non cercare di fare teatro in modo diverso dagli altri, questo non serve a molto, serve solo a creare frustrazione e disagio. Cercate invece la vostra voce, il vostro segno. Perché in epoche oscure, le luci più tenui, brillano come stelle.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Francesco Bettin</strong></p></div><div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/93abc951c9b11936ac34725b205265c5_S.jpg" alt="Francesco Zecca" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: justify;"><strong>Francesco Zecca</strong>, pugliese, è attore e regista, e si è diplomato al Centro Internazionale La Cometa, di Roma. Da anni fa teatro, e da un po’ di tempo collabora assiduamente con <strong>Lucrezia Lante Della Rovere</strong> (ma non solo). E’ stato diretto, tra gli altri, da <strong>Massimiliano Bruno</strong>, <strong>Pierpaolo Sepe</strong>, <strong>Duccio Camerini</strong>, <strong>Emma</strong> <strong>Dante</strong>, e ha a sua volta diretto spettacoli come <em>Il mondo non mi deve nulla</em>, di <strong>Massimo Carlotto</strong>, con <strong>Pamela Villoresi</strong>, <em>Come tu mi vuoi</em>, <em>Malamore</em> e <em>Io sono Misia</em>, con la <strong>Della Rovere</strong>, e ancora con l’attrice protagonista ha messo in scena un adattamento raffinato de <em>L’uomo dal fiore in bocca</em> di <strong>Pirandello</strong>. Attivo anche al cinema, <strong>Zecca</strong> è dotato di uno stile personale, come regista, piacevole, rigoroso. Lo abbiamo incontrato e intervistato, la sua è una simpatia che travolge, colma di estro come un artista puro, pirotenico.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Francesco, come nasce la tua passione per il teatro e lo spettacolo? <br /></strong> Mi viene in mente subito l’immagine di un’estate di molti anni fa. Tutto cominciava in giorni afosi di agosto in una località di mare, in Puglia, dove anche la sabbia scottava troppo per stare fermi e il sole non dava pace. La curiosità è un tratto distintivo che mi porto dietro da quando ero bambino: l’unica occupazione in quei momenti era spiare le mie zie e cugine sventolarsi e cucinare, e allora le copiavo e facevo dei siparietti comici. Vedere la gioia e la commozione nei loro occhi mi rendeva euforico…Quando facevamo la salsa di pomodoro ogni anno facevo la regia di qualche storia, con tutta la famiglia coinvolta. Era diventato un rito ….tutto questo accadeva quando ero piccolissimo, avrò avuto 8 anni al massimo. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Non avessi fatto questo mestiere dove sarebbe stato possibile trovarti? <br /></strong> Sicuramente al ristorante della mia famiglia, in piedi da oltre 50 anni, a rimestare quel succo di pomodoro di cui sopra. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Fare teatro oggi è sempre più un atto politico, che apre la mente? <br /></strong> Fare teatro è un atto politico di per sé, perché ha a che fare con la vita e tutto ciò che è vita è atto politico. Per me il Teatro è azione, un fare, un porre in essere. Un dare vita. Scegliere di fare teatro oggi è pericoloso, ed è libertà di sperimentare e di sbagliare, senza paura. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cinema, teatro, tv, fai un po’ di tutto. In Italia si lavora bene o a tuo parere ci sono delle criticità che andrebbero affrontate da parte politica, per sostenere tutti quelli che lavorano in questo ambito? <br /></strong> Guarda, in questo mestiere l’unica cosa di cui abbiamo veramente bisogno è il tempo. Il tempo per progettare, il tempo per provare, per rischiare, per avere l’opportunità di crescere. E’ proprio il tempo che è diventato un lusso, perché economicamente nessuno se lo può più permettere. Perciò è sempre più necessario continuare a fare arte e prendersi la responsabilità di questa azione. In questo senso non dovrebbe esserci separazione tra politica che sostiene e arte che crea, perché sono due facce della stessa medaglia. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>A cosa stai lavorando ora?</strong> <br /> Sto preparando lo spettacolo <em>Brutta - storia di un corpo come tanti</em>, testo e adattamento teatrale di <strong>Giulia Blasi</strong>, tratto dal suo omonimo romanzo, con Cristina Vaccaro. E’ uno spettacolo che indaga il rapporto del corpo della donna in relazione alla bellezza: la domanda che ruota intorno all’opera è: <em>chi ha detto che per occupare uno spazio pubblico per vivere appieno in società si debba per forza essere belle?</em>. Poi ho altri progetti in cantiere, ma è troppo presto per parlarne. Sono molto scaramantico, lo ammetto, infatti mi sto toccando uno dei 3 corni napoletani che porto al collo. Essere scaramantico è da ignoranti, non esserlo però porta male. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>C’è qualche artista anche del passato, che ti ha condizionato, che hai osservato molto, da cui hai cercato di apprendere qualcosa? Un artista che ti ha affascinato? <br /></strong> Ce ne sono tanti e mi diverte entrare dentro la poetica di un artista che amo, ma l’ossessione che mi accompagna da sempre è <strong>Charlie Chaplin</strong>: il suo essere nostalgico, comico e sentimentale allo stesso tempo. La fragilità del clown ha qualcosa che mi risuona dentro e trovo che sia un modo straordinario di raccontare il mondo. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Come definisci il teatro, Francesco? Cos’è per te? <br /></strong> E’ il luogo dell’anima, lo spazio dove mi permetto di essere me stesso, l’unico posto che permette di essere autentico oltre ogni giudizio. Il luogo che permette di sognare, d’altronde cos’è un uomo senza i propri sogni? </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Che spettatore sei? Vai a teatro a vedere i colleghi? Hai un genere preferito? <br /></strong> Quando vado a teatro spero di non dire all’uscita: che bella regia, che bel testo, che brava attrice o attore. Spero di dire piuttosto: che grande serata! Sono uno spettatore che ama sedersi e godersi lo spettacolo senza troppe pretese, anche quando a volte, ammetto che preferirei stare a casa con il mio adorato cane. Non ho un genere preferito, non mi piace neanche parlare di genere ma piuttosto di storie, è lì infatti che vengo catturato. Se una di queste storie viene raccontata bene, accade la magia. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>C’è sacralità, e quanta, nella recitazione? <br /></strong> Tantissima, per me. Il palcoscenico è sacro, nel momento in cui si sale c’è una parte un po’ esoterica. L’amore è sacro, ciò che un umano racconta a un altro suo simile diventa automaticamente sacrale. E nel teatro, nella recitazione è qualcosa di insito, anche se dura solo un momento, magari, una battuta soltanto. La sacralità è dunque anche salvezza, non è il fine ma il mezzo. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Non è un mestiere come un altro, dunque, lavorare nel teatro, nello spettacolo? <br /></strong> No, non lo è. Tutti i lavori hanno una responsabilità, questo in particolare ha quella di aver a che fare con l’animo dell’umanità, è come un’operazione a cuore aperto. Si ha a che fare con le vite, e si ha una forza potente, con la semplicità, però, di questa operazione. E’ una missione, comunque. Dove bisogna metterci semplicità, non credere di stare a fare cose importanti per il mondo. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Sei regista ma anche attore…le due anime possono condividere facilmente? <br /></strong> A volte litigano, però si amano molto, sai, la convivenza è sempre molto difficile. Una deve accettare le piccole meschinità dell’altra, per poi però ritrovarsi mano nella mano ed amarsi ancora. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Un sogno da realizzare? <br /></strong> Solo uno? Come diceva una grande bisogna <em>svuotare tutti i cassetti dai sogni e metterli sulle mensole, così li puoi guardare ogni giorno</em>. Ma bisogna avere coraggio per farlo perché a volte guardare i propri sogni dritti negli occhi fa paura. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Pensi che prima o poi si dovrà affrontare, e ripensare il sistema teatro? Vedremo un cambiamento che innoverà? <br /></strong> Dopo il tremendo periodo che tutti abbiamo vissuto qualche anno fa qualcosa è cambiato. In realtà non stiamo riuscendo a trovare ancora una quadra rispetto al fatto che il teatro ha un potere, che racconta l’uomo davanti all’uomo. Durante la pandemia si’, c’erano i live, gli streaming ma il cinema comunque si faceva, con tutte le regole. Il problema teatrale è che c’è una parte di mercato che ancora pensa che serva il cosiddetto nome famoso per fare uno spettacolo, quando invece il pubblico ha bisogno solo di spettacoli belli, dove poter sognare, vedersi raccontare. Come regista mi propongono certi spettacoli perché hanno vendibilità, che è una cosa che sta diventando ridicola a mio parere. C’è bisogno di avere un pubblico vivo anche nei piccoli paesini, di persone illuminate, che riescono a vedere il teatro, la cultura, come una possibilità e non per la vendibilità. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>E’ una cosa solo italiana? <br /></strong> Da un po’ di tempo mi sto confrontando anche con un mercato internazionale, e la cosa strana è che qui da noi c’è una divisione: il teatro fatto bene, quello per intenderci d’innovazione che non può fare soldi, e il teatro commerciale. Ecco, questa è una cosa da cambiare sicuramente, è chiaro che si deve guadagnare ma facendo tutto. Oltre a tutte le battaglie che stiamo facendo per essere riconosciuti come categoria, bisognerebbe anche cominciare a guardare all’estero, anche i produttori, per capire come trasformare quelle produzioni, non copiarle. Il teatro non potrà mai morire, nemmeno il suo stesso sistema, bisognerà cambiarlo e questo accadrà. Speriamo solo ci siano persone illuminate a fare ciò. Comunque siamo tutti noi che dobbiamo agire in questo senso. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Forse si è un po’ prigionieri di alcuni schemi? <br /></strong> Nella nostra testa siamo ancora prigionieri di alcune battaglie, degli anni Settanta, l’avanguardia, dove si era sempre contro qualcosa. Invece bisogna lavorare per le cose, non contro. Mi piace citare una frase di <strong>Madre Teresa di Calcutta</strong> che diceva <em>non mi invitate a una marcia contro la guerra ma invitatemi a una marcia per la pace</em>. E’ l’atteggiamento che conta, meglio lavorare per, non contro il sistema, altrimenti c’è solo un obiettivo da combattere. Ci nascondiamo sempre dietro la provincialità, che in qualche modo è la nostra comfort zone. In realtà siamo più europei di quel che non capiamo. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa auguri a te stesso e ai tuoi colleghi, a chi fa il tuo mestiere? <br /></strong> Di non cercare di fare teatro in modo diverso dagli altri, questo non serve a molto, serve solo a creare frustrazione e disagio. Cercate invece la vostra voce, il vostro segno. Perché in epoche oscure, le luci più tenui, brillano come stelle.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Francesco Bettin</strong></p></div>INTERVISTA A LODO GUENZI - di Francesco Bettin2023-12-26T19:40:41+01:002023-12-26T19:40:41+01:00https://www.sipario.it/attualita/dal-mondo/item/15529-intervista-a-lodo-guenzi-di-francesco-bettin.htmlFrancesco Bettin<div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/5fd5a7af7797534cf065efef047ba192_S.jpg" alt="Lodo Guenzi. Foto Danilo D'Auria" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: justify;">Sta girando l’Italia con una piacevolissima commedia di <strong>Agatha Christie</strong>, <em>Trappola per topi</em>, con la regia di <strong>Giorgio Gallione</strong> e un cast davvero interessante, molto affiatato. Il suo nome è legato naturalmente anche alla musica, e al cinema. <strong>Lodo Guenzi</strong> è bolognese, e in questa produzione de La Pirandelliana che lo vede protagonista nei panni del Sergente Trotter si sbizzarrisce come non mai, divertendosi e divertendo il pubblico. Ma come si sa <strong>Guenzi</strong> è anche il frontman e uno dei fondatori della band <em>Lo Stato Sociale</em>, quelli, per intenderci di <em>Una vita in vacanza</em>, presentata al festival di Sanremo nel 2018, (secondo posto e Premio Lucio Dalla). <strong>Guenzi</strong> ama affrontare sfide nuove, ecco perché attraversa come protagonista diverse forme d’arte. Nel cinema, ad esempio, è stato scelto tra gli altri anche da <strong>Pupi</strong> <strong>Avati</strong> per <em>La quattordicesima domenica del tempo ordinario</em>, dove ha recitato con <strong>Gabriele Lavia</strong> ed <strong>Edvige Fenech</strong>. Lo incontriamo durante una pausa del lavoro teatrale della Christie. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Ben trovato, Lodo. Tu sei cantante, musicista, e attore…. Qual è il metodo migliore oggi per fare bene questo mestiere artistico, in tutte le discipline? <br /></strong>Certamente la musica, ma forse anche il teatro, si può fare bene dal punto di vista artistico senza soldi, cioè fuori dai principi di mercato, che toglie libertà, ed è saturo, e quindi le uniche cose interessanti cominceranno a vedersi tra quelle al di fuori di esso. Esattamente come quando abbiamo cominciato con Lo Stato Sociale, noi eravamo interessanti proprio per questo. Il cinema purtroppo, invece, ha un discorso diverso, ha proprio bisogno di denaro e di quella libertà che oggi manca, come ad esempio quella di girare qualche settimana in più, non sempre tutto in fretta, e di essere meno cotto e mangiato, ecco. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Hai frequentato l’Accademia Nico Pepe a Udine, andando via presto da Bologna, la tua città. Il teatro era dunque già una passione fortissima che sentivi? <br /></strong> Di certo mi piaceva tenere banco, come si dice. Non ero capace mai di stare fermo, non mi piaceva stare mai seduto, nemmeno a scuola, e trovavo sempre un modo per stare in piedi, fare cose. In quegli anni poi la Nico Pepe era una scuola di buonissimo livello, e forse scelsi Udine anche per poter andar un po’ via da casa, come fosse una specie di avventura. Una scuola di quel tipo, inoltre, è così totalizzante che comunque consiglierei di viversela fuori da dove si abita, anche perché non si ha tempo per coltivare altre relazioni, è un mondo parallelo da vivere appieno. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Come abbiamo detto sei un artista multidisciplinare, eclettico. Ma c’è qualcosa ancora dell’arte che potrà stupirti, e stupirci, con te protagonista? <br /></strong> Credo di poter dire che tendenzialmente in molte delle cose che faccio sono un dilettante. Dopo tanta musica scritta e cantata, e portata in giro, sicuramente in questi ultimi anni tornare a fare teatro è stato interessante, la musica si è molto appiattita, instupidita, il dibattito pubblico attorno a quel linguaggio di massa è meno stimolante. L’idea invece, di poter fare attrarre delle persone a teatro e tenerle un’ora e mezzo o due dentro una sala, costrette a finire il giro del proprio ragionamento con la loro testa è secondo me un buon trucco per non cadere nella stupidità. In questo momento invece, scrivendo una canzone, è facile far fare confusione, comporre dei versi che magari non verranno ascoltati, o addirittura che possano scandalizzare e trovare qualcuno che si tragga da solo delle strane considerazioni. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quindi il teatro, in questo senso, ti dà tanto, e tante soddisfazioni mi par di capire…<br /></strong> Sai, comunque le persone che partono da casa e vengono a vederti, e pagano un biglietto per entrare, tendono a finire di vedere lo spettacolo, e questa cosa è una buona chiave di lettura, no? Ad esempio questo <em>Trappola per topi</em> che facciamo è uno spettacolo leggero ma dove si parla di un assassino. Se fai una canzone sullo stesso tema in questo momento è possibile che in qualche modo ti condannino, pensino magari che è la tua intenzione metterlo in luce e che stai facendo una strana apologia dell’omicidio. Facendo teatro nessuno viene a dirti che Medea è un’apologia dell’infanticidio, mentre nel linguaggio di massa è così, c’è questo rischio. E anche nel cinema: puoi fare un film sui camorristi, giustamente, ma non sugli squartatori, perché c’è il rischio che qualcuno venga a dirti che tu esalti quella cosa, anche se lo fai proprio perché non ti va bene. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Ci parli del tuo personaggio, del Sergente Trotter, che interpreti in <em>Trappola per topi</em>, della Christie? <br /></strong> Questo poliziotto che interpreto è come un bambino che si porta dietro dei traumi, ma anche gli altri personaggi della commedia, del resto. Portando avanti l’indagine il sergente deve fare un lavoro di marce, se la mettiamo come se fosse una lezione di guida, particolarmente sottile. Di tutti è il meno esasperato e forse per questo è il più problematico. Ed è un personaggio che bisogna far arrivare al pubblico pian piano, bisogna saper usare, appunto, le marce basse, cosa che io ancora non avevo fatto e che pratico con un certo piacere. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Invece, parlando di musica, <em>Stupido sexy futuro</em> è l’ultimo album de Lo Stato Sociale: credi di essere, assieme ai tuoi colleghi un po’ un simbolo, un esempio per le band di giovanissimi? <br /></strong> Direi proprio di no, il nostro è un genere molto difficile da replicare, siamo quelli con meno tentativi di imitazione sicuramente. Quello che facciamo è molto collettivo, variegato e senz’altro molto anarchico e questo invita poco… Purtroppo o per fortuna, chissà. Con <em>Stupido sexy futuro</em> è venuto il momento di ritrovarci, di fare un disco come dodici anni fa, un po’ come <em>Turisti della democrazia</em>, con lo stesso spirito, lo stesso tipo di libertà e anche di disagio. Credo che questa cosa sia stata recepita esattamente da quelli che ci riconoscono per quel tipo di musica e di rabbia, anche dai ventenni di oggi. Il nostro ultimo album ha parlato alle tv, e non ha intenzione di farlo. Gran parte della promozione generalista l’abbiamo rifiutata. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Coerenza, la vostra. <br /></strong> E’ stata una questione di recupero nostro, come gruppo, ed è bello anche esser riusciti a fare il nostro ultimo disco con <strong>Matteo</strong> (<em>Romagnoli, autore e manager della Garrincha Dischi, mancato quest’anno a 43 anni</em>). Sono contento che sia andata così, che siamo riusciti a pubblicare un disco ancora con lui. Io di solito sono un procrastinatore, penso sempre che il lavoro non è mai finito, che magari escono altre nuove idee, invece è stato meglio così, registrarlo, fare in tempo a farlo. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Hai un ricordo personale di Romagnoli? <br /></strong> Ne ho tantissimi. Mi ricordo, in auto, che mi accompagnava e io ero tutto insicuro per una cosa stupida, futile. Dopo un po’ che sbroccavo mi ha urlato in faccia e mi ha detto di smetterla, e di guardare cosa’aveva lui sulla schiena, ed era una grande massa. Mi disse: <em>Tutti i giorni io non so se il giorno dopo mi sveglio, quindi adesso andiamo a fare quello che dobbiamo fare e non rompi più</em>. Mi riportava alla realtà, quella vera. Un insegnamento. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Lodo Guenzi e il Festival di Sanremo. Avete in mente qualcosa col gruppo? <br /></strong> Al Festival di Sanremo sono grato, mi ha cambiato la vita, proiettandomi in un immaginario collettivo dentro il quale in qualche maniera ho imparato a nuotare, dandomi la possibilità di fare tante altre cose, tante scelte e di avere un pubblico a prescindere, diciamo, dalla band. Ma tornarci di nuovo, no. Rimanere dentro un sistema generalista è una cosa che tende a ridurti un po’ a una cosa sola, se ci rimani tanto tempo. L’idea mia invece è provare a scappare, e a lavorare su qualcosa che possa rimanere che non sia una gara di esposizione. Cito a proposito Giorgio Gaber. Quando mollò la televisione per andare nei teatri disse <em>Alcuni vogliono prendere l’assegno, altri vogliono lasciare il segno</em>. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Manca qualcosa al teatro, oggi? Pensi che si può chiedere qualcosa in più di quello che vediamo? <br /></strong> Chiederei che, in caso di nuove pandemie o cose simili, di pagare i tecnici, della musica, che sappiamo cosa sono e cosa fanno, per loro mi piacerebbe vedere un riconoscimento quando lo spettacolo si ferma. Per loro, ma anche per le sale concerto, i live club. Sarebbe un riconoscimento, un rispetto del lavoro altrui. I tecnici del teatro hanno dei contratti, loro no. Per gli artisti è difficile: chi può stabilire chi è un artista? Pensiamo che i più grandi innovatori della pittura del Novecento erano quelli a cui tiravano i pomodori…</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Francesco Bettin</strong></p></div><div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/5fd5a7af7797534cf065efef047ba192_S.jpg" alt="Lodo Guenzi. Foto Danilo D'Auria" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: justify;">Sta girando l’Italia con una piacevolissima commedia di <strong>Agatha Christie</strong>, <em>Trappola per topi</em>, con la regia di <strong>Giorgio Gallione</strong> e un cast davvero interessante, molto affiatato. Il suo nome è legato naturalmente anche alla musica, e al cinema. <strong>Lodo Guenzi</strong> è bolognese, e in questa produzione de La Pirandelliana che lo vede protagonista nei panni del Sergente Trotter si sbizzarrisce come non mai, divertendosi e divertendo il pubblico. Ma come si sa <strong>Guenzi</strong> è anche il frontman e uno dei fondatori della band <em>Lo Stato Sociale</em>, quelli, per intenderci di <em>Una vita in vacanza</em>, presentata al festival di Sanremo nel 2018, (secondo posto e Premio Lucio Dalla). <strong>Guenzi</strong> ama affrontare sfide nuove, ecco perché attraversa come protagonista diverse forme d’arte. Nel cinema, ad esempio, è stato scelto tra gli altri anche da <strong>Pupi</strong> <strong>Avati</strong> per <em>La quattordicesima domenica del tempo ordinario</em>, dove ha recitato con <strong>Gabriele Lavia</strong> ed <strong>Edvige Fenech</strong>. Lo incontriamo durante una pausa del lavoro teatrale della Christie. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Ben trovato, Lodo. Tu sei cantante, musicista, e attore…. Qual è il metodo migliore oggi per fare bene questo mestiere artistico, in tutte le discipline? <br /></strong>Certamente la musica, ma forse anche il teatro, si può fare bene dal punto di vista artistico senza soldi, cioè fuori dai principi di mercato, che toglie libertà, ed è saturo, e quindi le uniche cose interessanti cominceranno a vedersi tra quelle al di fuori di esso. Esattamente come quando abbiamo cominciato con Lo Stato Sociale, noi eravamo interessanti proprio per questo. Il cinema purtroppo, invece, ha un discorso diverso, ha proprio bisogno di denaro e di quella libertà che oggi manca, come ad esempio quella di girare qualche settimana in più, non sempre tutto in fretta, e di essere meno cotto e mangiato, ecco. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Hai frequentato l’Accademia Nico Pepe a Udine, andando via presto da Bologna, la tua città. Il teatro era dunque già una passione fortissima che sentivi? <br /></strong> Di certo mi piaceva tenere banco, come si dice. Non ero capace mai di stare fermo, non mi piaceva stare mai seduto, nemmeno a scuola, e trovavo sempre un modo per stare in piedi, fare cose. In quegli anni poi la Nico Pepe era una scuola di buonissimo livello, e forse scelsi Udine anche per poter andar un po’ via da casa, come fosse una specie di avventura. Una scuola di quel tipo, inoltre, è così totalizzante che comunque consiglierei di viversela fuori da dove si abita, anche perché non si ha tempo per coltivare altre relazioni, è un mondo parallelo da vivere appieno. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Come abbiamo detto sei un artista multidisciplinare, eclettico. Ma c’è qualcosa ancora dell’arte che potrà stupirti, e stupirci, con te protagonista? <br /></strong> Credo di poter dire che tendenzialmente in molte delle cose che faccio sono un dilettante. Dopo tanta musica scritta e cantata, e portata in giro, sicuramente in questi ultimi anni tornare a fare teatro è stato interessante, la musica si è molto appiattita, instupidita, il dibattito pubblico attorno a quel linguaggio di massa è meno stimolante. L’idea invece, di poter fare attrarre delle persone a teatro e tenerle un’ora e mezzo o due dentro una sala, costrette a finire il giro del proprio ragionamento con la loro testa è secondo me un buon trucco per non cadere nella stupidità. In questo momento invece, scrivendo una canzone, è facile far fare confusione, comporre dei versi che magari non verranno ascoltati, o addirittura che possano scandalizzare e trovare qualcuno che si tragga da solo delle strane considerazioni. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quindi il teatro, in questo senso, ti dà tanto, e tante soddisfazioni mi par di capire…<br /></strong> Sai, comunque le persone che partono da casa e vengono a vederti, e pagano un biglietto per entrare, tendono a finire di vedere lo spettacolo, e questa cosa è una buona chiave di lettura, no? Ad esempio questo <em>Trappola per topi</em> che facciamo è uno spettacolo leggero ma dove si parla di un assassino. Se fai una canzone sullo stesso tema in questo momento è possibile che in qualche modo ti condannino, pensino magari che è la tua intenzione metterlo in luce e che stai facendo una strana apologia dell’omicidio. Facendo teatro nessuno viene a dirti che Medea è un’apologia dell’infanticidio, mentre nel linguaggio di massa è così, c’è questo rischio. E anche nel cinema: puoi fare un film sui camorristi, giustamente, ma non sugli squartatori, perché c’è il rischio che qualcuno venga a dirti che tu esalti quella cosa, anche se lo fai proprio perché non ti va bene. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Ci parli del tuo personaggio, del Sergente Trotter, che interpreti in <em>Trappola per topi</em>, della Christie? <br /></strong> Questo poliziotto che interpreto è come un bambino che si porta dietro dei traumi, ma anche gli altri personaggi della commedia, del resto. Portando avanti l’indagine il sergente deve fare un lavoro di marce, se la mettiamo come se fosse una lezione di guida, particolarmente sottile. Di tutti è il meno esasperato e forse per questo è il più problematico. Ed è un personaggio che bisogna far arrivare al pubblico pian piano, bisogna saper usare, appunto, le marce basse, cosa che io ancora non avevo fatto e che pratico con un certo piacere. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Invece, parlando di musica, <em>Stupido sexy futuro</em> è l’ultimo album de Lo Stato Sociale: credi di essere, assieme ai tuoi colleghi un po’ un simbolo, un esempio per le band di giovanissimi? <br /></strong> Direi proprio di no, il nostro è un genere molto difficile da replicare, siamo quelli con meno tentativi di imitazione sicuramente. Quello che facciamo è molto collettivo, variegato e senz’altro molto anarchico e questo invita poco… Purtroppo o per fortuna, chissà. Con <em>Stupido sexy futuro</em> è venuto il momento di ritrovarci, di fare un disco come dodici anni fa, un po’ come <em>Turisti della democrazia</em>, con lo stesso spirito, lo stesso tipo di libertà e anche di disagio. Credo che questa cosa sia stata recepita esattamente da quelli che ci riconoscono per quel tipo di musica e di rabbia, anche dai ventenni di oggi. Il nostro ultimo album ha parlato alle tv, e non ha intenzione di farlo. Gran parte della promozione generalista l’abbiamo rifiutata. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Coerenza, la vostra. <br /></strong> E’ stata una questione di recupero nostro, come gruppo, ed è bello anche esser riusciti a fare il nostro ultimo disco con <strong>Matteo</strong> (<em>Romagnoli, autore e manager della Garrincha Dischi, mancato quest’anno a 43 anni</em>). Sono contento che sia andata così, che siamo riusciti a pubblicare un disco ancora con lui. Io di solito sono un procrastinatore, penso sempre che il lavoro non è mai finito, che magari escono altre nuove idee, invece è stato meglio così, registrarlo, fare in tempo a farlo. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Hai un ricordo personale di Romagnoli? <br /></strong> Ne ho tantissimi. Mi ricordo, in auto, che mi accompagnava e io ero tutto insicuro per una cosa stupida, futile. Dopo un po’ che sbroccavo mi ha urlato in faccia e mi ha detto di smetterla, e di guardare cosa’aveva lui sulla schiena, ed era una grande massa. Mi disse: <em>Tutti i giorni io non so se il giorno dopo mi sveglio, quindi adesso andiamo a fare quello che dobbiamo fare e non rompi più</em>. Mi riportava alla realtà, quella vera. Un insegnamento. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Lodo Guenzi e il Festival di Sanremo. Avete in mente qualcosa col gruppo? <br /></strong> Al Festival di Sanremo sono grato, mi ha cambiato la vita, proiettandomi in un immaginario collettivo dentro il quale in qualche maniera ho imparato a nuotare, dandomi la possibilità di fare tante altre cose, tante scelte e di avere un pubblico a prescindere, diciamo, dalla band. Ma tornarci di nuovo, no. Rimanere dentro un sistema generalista è una cosa che tende a ridurti un po’ a una cosa sola, se ci rimani tanto tempo. L’idea mia invece è provare a scappare, e a lavorare su qualcosa che possa rimanere che non sia una gara di esposizione. Cito a proposito Giorgio Gaber. Quando mollò la televisione per andare nei teatri disse <em>Alcuni vogliono prendere l’assegno, altri vogliono lasciare il segno</em>. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Manca qualcosa al teatro, oggi? Pensi che si può chiedere qualcosa in più di quello che vediamo? <br /></strong> Chiederei che, in caso di nuove pandemie o cose simili, di pagare i tecnici, della musica, che sappiamo cosa sono e cosa fanno, per loro mi piacerebbe vedere un riconoscimento quando lo spettacolo si ferma. Per loro, ma anche per le sale concerto, i live club. Sarebbe un riconoscimento, un rispetto del lavoro altrui. I tecnici del teatro hanno dei contratti, loro no. Per gli artisti è difficile: chi può stabilire chi è un artista? Pensiamo che i più grandi innovatori della pittura del Novecento erano quelli a cui tiravano i pomodori…</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Francesco Bettin</strong></p></div>INTERVISTA A ROBERTA BIAGIARELLI - di Nicola Arrigoni2023-12-16T10:28:49+01:002023-12-16T10:28:49+01:00https://www.sipario.it/attualita/dal-mondo/item/15513-intervista-a-roberta-biagiarelli-di-nicola-arrigoni.htmlNicola Arrigoni<div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/397f86fe7d20b2b42c3a6e47e2642a76_S.jpg" alt="Roberta Biagiarelli" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: justify;"><span style="font-size: 14pt;"><strong>A come Srebrenica, 25 anni per fare memoria dell’eccidio etnico<br /><em>Roberta Biagiarelli racconta il suo impegno per non dimenticare gli orrori della guerra dei Balcani<br /></em>L’intervista di Nicola Arrigoni</strong></span></p> <p style="text-align: justify;">Da venticinque anni l’eccidio di 8.732 civili uccisi nella cittadina della Bosnia Erzegovina di Srebrenica vive e ri-vive in A come Srebrenica, un’elegia del dolore e dell’orrore della guerra che <strong>Roberta Biagiarelli</strong> porta in scena, testimonia, fa rivivere dal luglio 1998 Nella voce di Biagiarelli c’è l’entusiasmo mai fiacco dell’impegno civile, c’è un ethos che si fa proselitismo laico nei confronti di un’umanità che non dimentichi la bestia che in essa è sepolta e che di volta in volta emerge. </p> <p style="text-align: justify;">Il ricordo di chi scrive va a una fredda mattina invernale nel cuore della pianura padana e nello spazio ridotto e intimo dell’auditorium Galilei in cui<em> A come Srebrenica</em> venne proposto alle scuole e poi in serale nella stagione del teatro di Romanengo, gestita alla fine anni Novanta dalla compagnia Piccolo Parallelo di <strong>Marco</strong> <strong>Zappalaglio</strong> ed <strong>Enzo Cecchi</strong>, uno spazio teatrale di forte coraggio innovativo ed etico che seppe raccontare e testimoniare il teatro d’arte nella periferia lombarda fra la fine anni Novanta e i primi anni Duemila.</p> <p style="text-align: justify;"><strong><em>A come Srebrenica</em>, in scena da 25 anni, conta ben oltre 600 volte in Italia e all’estero: Sarajevo, Tuzla, tour in Spagna, Vienna, Svizzera, Svezia e Gerusalemme. Il 19 febbraio 2019 il monologo è stato ospitato dal Parlamento Europeo a Bruxelles. Che cosa vuol dire continuare a farlo? <br /></strong>«È un impegno per non dimenticare, ma non ho fatto solo quello. Certo A come Srebrenica ha segnato la mia vita di attrice, ma soprattutto di operatrice culturale».</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Come è nato lo spettacolo che vanta un piccolo primato non così frequente nell’Italia delle produzioni mordi e fuggi.<br /></strong>Ride: «Sì è una sorta di unicum. È nato ai tempi di Laboratorio Teatro Settimo, dopo che lessi <em>La guerra in casa</em> di <strong>Luca Rastello</strong> a spingermi ad investigare e raccogliere informazioni utili alla scrittura e interpretazione di <em>A come Srebrenica</em>, testo frutto del lavoro svolto con <strong>Simona Gonella</strong> e <strong>Giovanna Giovannozzi</strong>. Lo spettacolo debuttato nel 1998, non credo esista un monologo che possa vantare una così lunga vita. Oggi lo riprendo, richiesta da scuole e associazioni, molto spesso per affrontare un periodo di storia che nei manuali è sintetizzato in poche righe e che invece è così importante anche per capire il nostro presente».</p> <p style="text-align: justify;"><strong><em>A come Srebrenica</em> racconta i fatti accaduti nella cittadina nel luglio del 1995, in piena guerra dell’ex Jugoslavia.<br /></strong>«Dopo tre lunghi anni di assedio intorno al 9 luglio 1995 l’armata serbo bosniaca attacca la sua Zona Protetta di Srebrenica e il territorio circostante. L’offensiva si protrae fino all’11 luglio 1995, giorno in cui le unità serbo - bosniache guidate dal generale Ratko Mladic entrano nella cittadina bosniaca. Seguono stupri, mutilazioni, esecuzioni di civili, sepolture di vivi. Ma il massacro di 8.372 civili di quella metà di luglio del 1995 è solo l’epilogo di una storia iniziata tre anni prima: una storia di Assedio. Il mio racconto è il racconto di quell’assedio, narrazione scaturita dalla curiosità di una donna che tornando bambina scruta l’orizzonte della cosa orientale dell’Italia e si chiede: Che cosa c’è dall’altra parte?».</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Dopo venticinque anni come è cambiato il monologo che porta in scena, come è cambiata Roberta Biagiarelli?<br /></strong>«Iniziamo dal monologo. Il testo è pressoché il medesimo, aggiornato con i fatti che nel corso degli anni hanno portato ai processi, alla ricostruzione e alla scoperta delle fosse comuni e alla riesumazione delle salme. Ma le parole sono quelle, parole che col passare degli anni hanno trovato una loro assolutezza e la forza impellente di interrogarsi sugli orrori passati e su quelli presenti».</p> <p style="text-align: justify;"><strong>La guerra non passa di moda e neppure gli orrori perpetrati sui civili, basti pensare al conflitto in Ucraina e a quanto sta accadendo a Gaza.<br /></strong>«Abbiamo davanti ai nostri occhi quanto l’orrore della guerra sia quanto mai attuale. Anzi senza conoscere il conflitto dell’ex Jugoslavia non si possono capire le guerre disseminate, parcellizzate nel mondo che accadono oggi. Quando le scuole, associazioni mi chiedono di rimettere in scena <em>A come Srebrenica</em> mi rendo conto che non è mera ripetizione, ma è un rinnovare la testimonianza di un fatto storico che ci dice di oggi e ci aiuta a leggere il nostro presente».</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Roberta Biagiarelli come è stata cambiata da <em>A come Srebrenica</em>? Non si sente prigioniera di questo lavoro?<br /></strong>«No, e non solo perché negli anni ho fatto altro. Ma <em>A come Srebrenica</em> ha trasformato il mio modo di essere attrice, è diventato lo spazio, la chiave di lettura che mi ha portato ad approfondire i fatti storici, ma anche ad agire a Srebrenica. È ormai una parte della mia vita. Nel 2005 nel decennale del massacro ho prodotto e interpretato il documentario <em>Souvenir Srebrenica</em> trasmesso nel giugno 2011 da Rai Uno TG1- speciale il documentario in seguito all’arresto di Ratko Mladic, processato presso il Tribunale penale dell’Aja per crimini commessi in ex-Jugoslavia e oggi condannato all’ergastolo. Tra il 2008 e il 2010 sono stata nominata dal Ministero degli Affari esteri italiano esperta dell’area balcanica di Srebrenica e chiamata a coordinare come responsabile il ‘Progetto pilota a sostegno della comunicazione per lo sviluppo e la rivitalizzazione socioculturale dell’area di Srebrenica’ per conto della Cooperazione italiana- Ambasciata d’Italia a Sarajevo / Bosnia - Erzegovina ».</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Srebrenica è diventata spazio e luogo concreto per Biagiarelli.<br /></strong>«Ho contribuito a riaprire il teatro di Srebrenica, una comunità decimata dal massacro. Negli anni dopo la fine della guerra sembrava che si potesse ricominciare, c’era una grande voglia di riprendersi la vita e al tempo stesso fare i conti con quanto era accaduto. In realtà oggi Srebrenica è una città depressa, qualche settimana fa ha chiuso anche l’unico fornaio. È una comunità di poco più di duemila persone, su un’area rurale molto ampia. Oggi poi è guidata da un giovane sindaco serbo, che nega il massacro del 1995, mentre ancora si riesumano le salme dalle fosse comune. In città vivono i serbi, nelle zone rurali invece la comunità musulmana». </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Dal teatro alla realtà e alla volontà di cambiare le cose: questo percorso si è trasformato della Transumanza della pace. Di cosa si tratta?<br /></strong>«Ho avviato un progetto di volontariato e solidarietà insieme all’amico <strong>Gianbattista Rigoni Stern</strong> (figlio dello scrittore <strong>Mario Rigoni Stern</strong>) dal titolo La transumanza della Pace; abbiamo consegnato in quattro anni consecutivi di donazioni un totale di 137 vacche di razza rendena a 86 famiglie di allevatori contadini, rientrati profughi sull’Altopiano di Suceska (in municipalità di Srebrenica). Le proiezioni pubbliche del documentario da me realizzato (che racconta il primo anno di consegna degli animali) ci hanno permesso di raccogliere una consistente quantità di libere donazioni con le quali abbiamo acquistato attrezzi agricoli destinati alle famiglie bosniache di agricoltori. Grazie ad altri fondi abbiamo costruito tre stalle e attualmente ci stiamo occupando della formazione del personale veterinario in loco e della progettazione di un caseificio. Il progetto è tuttora in corso e diretto a titolo totalmente volontaristico da Gianbattista Rigoni Stern».</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Il teatro che trasforma la realtà, in tutto questo la guerra nell’ex Jugoslavia mantiene per lei una centralità<br /></strong>«Si tratta del mio modo di leggere il tempo che viviamo e di non dimenticare un conflitto da cui dobbiamo partire se vogliamo capire quello che ci accade intorno. In questa direzione va il volume <em>Shooting in Sarajevo</em> che firmo insieme a <strong>Luigi Ottani</strong> che mostra la città bosniaca e i suoi abitanti dal punto di vista dei cecchini che la terrorizzarono durante il lungo assedio iniziato nel 1992 e terminato 25 anni fa. Un’occasione preziosa per fare memoria». </p></div><div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/397f86fe7d20b2b42c3a6e47e2642a76_S.jpg" alt="Roberta Biagiarelli" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: justify;"><span style="font-size: 14pt;"><strong>A come Srebrenica, 25 anni per fare memoria dell’eccidio etnico<br /><em>Roberta Biagiarelli racconta il suo impegno per non dimenticare gli orrori della guerra dei Balcani<br /></em>L’intervista di Nicola Arrigoni</strong></span></p> <p style="text-align: justify;">Da venticinque anni l’eccidio di 8.732 civili uccisi nella cittadina della Bosnia Erzegovina di Srebrenica vive e ri-vive in A come Srebrenica, un’elegia del dolore e dell’orrore della guerra che <strong>Roberta Biagiarelli</strong> porta in scena, testimonia, fa rivivere dal luglio 1998 Nella voce di Biagiarelli c’è l’entusiasmo mai fiacco dell’impegno civile, c’è un ethos che si fa proselitismo laico nei confronti di un’umanità che non dimentichi la bestia che in essa è sepolta e che di volta in volta emerge. </p> <p style="text-align: justify;">Il ricordo di chi scrive va a una fredda mattina invernale nel cuore della pianura padana e nello spazio ridotto e intimo dell’auditorium Galilei in cui<em> A come Srebrenica</em> venne proposto alle scuole e poi in serale nella stagione del teatro di Romanengo, gestita alla fine anni Novanta dalla compagnia Piccolo Parallelo di <strong>Marco</strong> <strong>Zappalaglio</strong> ed <strong>Enzo Cecchi</strong>, uno spazio teatrale di forte coraggio innovativo ed etico che seppe raccontare e testimoniare il teatro d’arte nella periferia lombarda fra la fine anni Novanta e i primi anni Duemila.</p> <p style="text-align: justify;"><strong><em>A come Srebrenica</em>, in scena da 25 anni, conta ben oltre 600 volte in Italia e all’estero: Sarajevo, Tuzla, tour in Spagna, Vienna, Svizzera, Svezia e Gerusalemme. Il 19 febbraio 2019 il monologo è stato ospitato dal Parlamento Europeo a Bruxelles. Che cosa vuol dire continuare a farlo? <br /></strong>«È un impegno per non dimenticare, ma non ho fatto solo quello. Certo A come Srebrenica ha segnato la mia vita di attrice, ma soprattutto di operatrice culturale».</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Come è nato lo spettacolo che vanta un piccolo primato non così frequente nell’Italia delle produzioni mordi e fuggi.<br /></strong>Ride: «Sì è una sorta di unicum. È nato ai tempi di Laboratorio Teatro Settimo, dopo che lessi <em>La guerra in casa</em> di <strong>Luca Rastello</strong> a spingermi ad investigare e raccogliere informazioni utili alla scrittura e interpretazione di <em>A come Srebrenica</em>, testo frutto del lavoro svolto con <strong>Simona Gonella</strong> e <strong>Giovanna Giovannozzi</strong>. Lo spettacolo debuttato nel 1998, non credo esista un monologo che possa vantare una così lunga vita. Oggi lo riprendo, richiesta da scuole e associazioni, molto spesso per affrontare un periodo di storia che nei manuali è sintetizzato in poche righe e che invece è così importante anche per capire il nostro presente».</p> <p style="text-align: justify;"><strong><em>A come Srebrenica</em> racconta i fatti accaduti nella cittadina nel luglio del 1995, in piena guerra dell’ex Jugoslavia.<br /></strong>«Dopo tre lunghi anni di assedio intorno al 9 luglio 1995 l’armata serbo bosniaca attacca la sua Zona Protetta di Srebrenica e il territorio circostante. L’offensiva si protrae fino all’11 luglio 1995, giorno in cui le unità serbo - bosniache guidate dal generale Ratko Mladic entrano nella cittadina bosniaca. Seguono stupri, mutilazioni, esecuzioni di civili, sepolture di vivi. Ma il massacro di 8.372 civili di quella metà di luglio del 1995 è solo l’epilogo di una storia iniziata tre anni prima: una storia di Assedio. Il mio racconto è il racconto di quell’assedio, narrazione scaturita dalla curiosità di una donna che tornando bambina scruta l’orizzonte della cosa orientale dell’Italia e si chiede: Che cosa c’è dall’altra parte?».</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Dopo venticinque anni come è cambiato il monologo che porta in scena, come è cambiata Roberta Biagiarelli?<br /></strong>«Iniziamo dal monologo. Il testo è pressoché il medesimo, aggiornato con i fatti che nel corso degli anni hanno portato ai processi, alla ricostruzione e alla scoperta delle fosse comuni e alla riesumazione delle salme. Ma le parole sono quelle, parole che col passare degli anni hanno trovato una loro assolutezza e la forza impellente di interrogarsi sugli orrori passati e su quelli presenti».</p> <p style="text-align: justify;"><strong>La guerra non passa di moda e neppure gli orrori perpetrati sui civili, basti pensare al conflitto in Ucraina e a quanto sta accadendo a Gaza.<br /></strong>«Abbiamo davanti ai nostri occhi quanto l’orrore della guerra sia quanto mai attuale. Anzi senza conoscere il conflitto dell’ex Jugoslavia non si possono capire le guerre disseminate, parcellizzate nel mondo che accadono oggi. Quando le scuole, associazioni mi chiedono di rimettere in scena <em>A come Srebrenica</em> mi rendo conto che non è mera ripetizione, ma è un rinnovare la testimonianza di un fatto storico che ci dice di oggi e ci aiuta a leggere il nostro presente».</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Roberta Biagiarelli come è stata cambiata da <em>A come Srebrenica</em>? Non si sente prigioniera di questo lavoro?<br /></strong>«No, e non solo perché negli anni ho fatto altro. Ma <em>A come Srebrenica</em> ha trasformato il mio modo di essere attrice, è diventato lo spazio, la chiave di lettura che mi ha portato ad approfondire i fatti storici, ma anche ad agire a Srebrenica. È ormai una parte della mia vita. Nel 2005 nel decennale del massacro ho prodotto e interpretato il documentario <em>Souvenir Srebrenica</em> trasmesso nel giugno 2011 da Rai Uno TG1- speciale il documentario in seguito all’arresto di Ratko Mladic, processato presso il Tribunale penale dell’Aja per crimini commessi in ex-Jugoslavia e oggi condannato all’ergastolo. Tra il 2008 e il 2010 sono stata nominata dal Ministero degli Affari esteri italiano esperta dell’area balcanica di Srebrenica e chiamata a coordinare come responsabile il ‘Progetto pilota a sostegno della comunicazione per lo sviluppo e la rivitalizzazione socioculturale dell’area di Srebrenica’ per conto della Cooperazione italiana- Ambasciata d’Italia a Sarajevo / Bosnia - Erzegovina ».</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Srebrenica è diventata spazio e luogo concreto per Biagiarelli.<br /></strong>«Ho contribuito a riaprire il teatro di Srebrenica, una comunità decimata dal massacro. Negli anni dopo la fine della guerra sembrava che si potesse ricominciare, c’era una grande voglia di riprendersi la vita e al tempo stesso fare i conti con quanto era accaduto. In realtà oggi Srebrenica è una città depressa, qualche settimana fa ha chiuso anche l’unico fornaio. È una comunità di poco più di duemila persone, su un’area rurale molto ampia. Oggi poi è guidata da un giovane sindaco serbo, che nega il massacro del 1995, mentre ancora si riesumano le salme dalle fosse comune. In città vivono i serbi, nelle zone rurali invece la comunità musulmana». </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Dal teatro alla realtà e alla volontà di cambiare le cose: questo percorso si è trasformato della Transumanza della pace. Di cosa si tratta?<br /></strong>«Ho avviato un progetto di volontariato e solidarietà insieme all’amico <strong>Gianbattista Rigoni Stern</strong> (figlio dello scrittore <strong>Mario Rigoni Stern</strong>) dal titolo La transumanza della Pace; abbiamo consegnato in quattro anni consecutivi di donazioni un totale di 137 vacche di razza rendena a 86 famiglie di allevatori contadini, rientrati profughi sull’Altopiano di Suceska (in municipalità di Srebrenica). Le proiezioni pubbliche del documentario da me realizzato (che racconta il primo anno di consegna degli animali) ci hanno permesso di raccogliere una consistente quantità di libere donazioni con le quali abbiamo acquistato attrezzi agricoli destinati alle famiglie bosniache di agricoltori. Grazie ad altri fondi abbiamo costruito tre stalle e attualmente ci stiamo occupando della formazione del personale veterinario in loco e della progettazione di un caseificio. Il progetto è tuttora in corso e diretto a titolo totalmente volontaristico da Gianbattista Rigoni Stern».</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Il teatro che trasforma la realtà, in tutto questo la guerra nell’ex Jugoslavia mantiene per lei una centralità<br /></strong>«Si tratta del mio modo di leggere il tempo che viviamo e di non dimenticare un conflitto da cui dobbiamo partire se vogliamo capire quello che ci accade intorno. In questa direzione va il volume <em>Shooting in Sarajevo</em> che firmo insieme a <strong>Luigi Ottani</strong> che mostra la città bosniaca e i suoi abitanti dal punto di vista dei cecchini che la terrorizzarono durante il lungo assedio iniziato nel 1992 e terminato 25 anni fa. Un’occasione preziosa per fare memoria». </p></div>INTERVISTA A ALESSANDRO PREZIOSI - di Francesco Bettin2023-12-08T11:36:26+01:002023-12-08T11:36:26+01:00https://www.sipario.it/attualita/dal-mondo/item/15504-intervista-a-alessandro-preziosi-di-francesco-bettin.htmlFrancesco Bettin<div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/5fd6e6328fad90d498c3bb3d8b62d965_S.jpg" alt="Alessandro Preziosi. Foto Gabriele Galimberti" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: justify;">Si è laureato in giurisprudenza col massimo dei voti, a Napoli (sua città natale) e dopo un breve periodo di lavoro <strong>Alessandro Preziosi</strong> ha sentito di dover virare il suo percorso professionale verso il teatro, sua grande passione. Si è stabilito a Milano, ha studiato all’Accademia dei Filodrammatici, per poi debuttare nel’<em>Amleto</em> con la regia di <strong>Antonio Calenda</strong>. Ben presto ha iniziato a lavorare anche per la tv, dove ha ottenuto na grande notorietà interpretando il conte Fabrizio Ristori, in <em>Elisa di Rivombrosa</em>. Si è sempre alternato tra fiction, teatro e cinema, lavorando con registi come <strong>Armando Pugliese</strong>, <strong>Faenza</strong>, <strong>Baracco</strong>, <strong>Ozpetek</strong>, <strong>Pappi Corsicato</strong>, e mettendo in scena, come regista, diversi spettacoli (interpretati, anche) con elegante spirito visionario, come <em>Il ponte</em>, <em>Cyrano de Bergerac</em>, <em>Don Giovanni</em>, tutti di grande successo. Da diversi anni sta facendo un percorso di grande intensità e studio, e ricerca su testi anche classici, portandoli a teatro con efficacia e rigore stilistico. Ha appena terminato <em>Aspettando Re Lear</em>, di <strong>Tommaso Mattei,</strong> da Shakespeare, con cui ha debuttato all’Estate Teatrale Veronese, che ha portato in giro in una breve <em>tournèe</em> in Veneto, e che riprenderà. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quando pensi di riportarlo nei teatri, il tuo raffinato <em>Aspettando Re Lear</em>? <br /></strong>Abbiamo finito il primo turno, diciamo, e dovremmo riprenderlo nel 2024, portandolo nelle grandi capitali, Roma, Parigi, Milano. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quel verbo nel titolo, <em>Aspettando</em>, a cosa si riferisce esattamente? <br /></strong>Allude in maniera molto forte allo stato di nichilismo e di azzeramento che si ritrovano negli scritti di <strong>Samuel Beckett</strong>. La nostra idea, mia e di <strong>Tommaso Mattei</strong>, autore del testo, è quella di restituire l’aspetto apocalittico della tragedia di <strong>Shakespeare</strong>, di questa carambola incontrollabile nella quale i personaggi travolgono il sire e tutti quelli che sono intorno a lui. Considerando che è una tragedia dove tutti i personaggi muoiono, tranne Edgar, quell’attesa del Re Lear, quell’aspettare vuole in qualche modo aiutare lo spettatore, e voleva farlo anche con noi stessi durante l’adattamento. Prendere considerazione di tutti quegli aspetti che restituiscono una tabula rasa, una specie di non senso delle cose che annulla tutto ciò che invece ha senso. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Un po’ di similitudine con l’autore irlandese? <br /></strong>In qualche modo, in <strong>Beckett</strong>, i personaggi e le atmosfere suggeriscono quello. Da una parte. Dall’altra, nell’adattamento, nella scrittura, nel cercare di mettere a fuoco con la lente di ingrandimento i rapporti tra padre e figlio, Gloster, Edgar e Edmund, e Lear – Cordelia, dove l’attesa diventa invece un senso di speranza. Come se, in qualche modo questo senso del nulla, della morte del linguaggio attraverso il concetto del niente, della morte in vita, del morire prima di morire, come ho scritto nelle note di regia, dà appunto una grandissima aspettativa. E l’attesa è una forma di illusione, appunto, di speranza. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>In scena, sul palco, le opere del maestro Michelangelo Pistoletto, un grande protagonista dell’Arte povera. Opere che diventano scenografia. Come mai questa scelta? <br /></strong>Il maestro ha tre figlie…chissà…un certo destino? Quelle opere sono in grande armonia con lo spirito dello spettacolo. Devo dire la verità, però, è stata più una coincidenza che una scelta premeditata, una specie di occasione creatasi. Abbiamo incontrato <strong>Pistoletto</strong> durante una sua personale, al Chiostro del Bramante, a Roma, e accennandogli a quella che era la storia, e le motivazioni con le quali stavamo affrontando la riscrittura del Lear, il caso ha voluto che le sue opere rappresentassero in qualche modo quello che iconograficamente vedevamo nel nostro spettacolo, e potevano farne parte. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Un levare, un togliere, considerando Pistoletto. <br /></strong>Esatto, tutta arte povera, tutti oggetti in meno. Quindi un Re che parla di un regno che vuole dividere, che è un letto con una palla, un pulpito da dove parla che invece è una struttura per parlare in piedi, un tavolo delle trattative che è un segno porta. O ancora, una porta dove si entra e si esce che è l’uomo di Vitruvio. Arte in meno, elementi di cui liberarsi. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Una sfida, l’arte pura sul palcoscenico? <br /></strong>Fondamentalmente si’, quella che le opere di un artista, chi esso sia, possano essere visitate dall’attore e poi prendere vita e poter rappresentare anche una scogliera, una cornice, una corte dove processare le figlie. Una polifuzionalità delle opere che hanno generato forse il perno intorno al quale tutta la messa in scena, obbligatoriamente si è dovuta imperniare. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Nel frattempo, visto che sei un una pausa teatrale, sei pronto per qualche altra tua sfida? <br /></strong>Dopo la trilogia, Amleto, Cyrano, Don Giovanni, e ultimamente cimentandomi con <strong>Van Gogh</strong>, <strong>Pistoletto</strong> e <strong>Shakespeare</strong>, vorrei cominciare ad occuparmi di Dostoevskij. Lo scrittore russo credo possa essere un autore interessante con il quale confrontarsi soprattutto per quello che riguarda il concetto della fede. Credo sia un autore che più di altri renda moderno, fruibile il ragionato e il rapporto dell’uomo con l’aldilà. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>La vera forza del teatro, la sua potenza qual è secondo te? <br /></strong>Intanto quella forza è oggi indiscussa e indiscutibile a differenza delle difficoltà con i quali il cinema sopravvive. E’ un’incredibile realtà quella che il teatro vive oggi, molto rara. C’è sempre stata ma continua imperterrita anche nelle complicazioni di questi anni. La sua forza credo che sia quella di fare il paio con ciò che, al contrario, è la vita di tutti i giorni, che è velocissima e non permette di creare concentrazione rispetto a ciò che si vede. Ad esempio, ancora il cinema:,è difficile che un film possa lasciare spunti di riflessione, farsi delle domande rispetto a uno spettacolo. A teatro la grande forza è quella di rappresentarci, di farci vedere esattamente come siamo in quel momento. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Uno specchio di noi, quindi? <br /></strong>Un processo di condivisione di cui la gente ha bisogno perché è isolata, al di là della retorica dell’uso del telefonino, del rimanere a testa china sui propri oggetti, che poi è la velocità con cui si passa da un argomento a un altro e non si è parlato di nulla. Vedere dunque, inizio, sviluppo, narrazione e conclusione di uno spettacolo, è tanta roba. Credo che le persone in questo modo recuperino la propria dignità. Anche uno spettacolo come <em>Aspettando Re Lear</em>, dall’adattamento non facile, di elementi non così fruibili, tenta un incredibile maelstrom di contenuti, di emozioni, polifunzionalità, arte. Infatti su questo ultimo spettacolo del Lear stiamo realizzando un documentario, con lo stesso titolo.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Dove si potrà vederlo? <br /></strong>Al cinema. E racconterà in modo, credo, interessante, il rapporto tra il cinema, il teatro e l’arte, e lo stile documentaristico. Si vedrà l’arrivo delle opere, in teatro, il Goldoni di Venezia, con lo sviluppo narrativo attraverso molte scene girate all’Arsenale, a Palazzo Ducale e alla Fondazione Cini. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>C’è qualche sogno che ha in mente Alessandro Preziosi? Anche come uomo, intendo. <br /></strong>Beh, si’. Sogno di imparare a suonare il pianoforte come Dio comanda, continuo ad avere questa grande illusione che allo stesso tempo è una frustrazione. Lo suono, ma male. Mi piacerebbe suonarlo meglio…</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Magari per suonarlo sulla scena? <br /></strong>Certo. Il mio grande obiettivo è fare in teatro il <em>Faust</em>, di <strong>Thomas Mann</strong>. Con la musica, suonandola direttamente. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa ti ha dato e tolto il successo personale, il gradimento, l’essere amato dal pubblico? <br /></strong>Per quello che mi riguarda il successo mi ha migliorato come uomo. Credo di essere sempre stato una brava persona, ma oggi ancor di più, nel senso che se il successo incontra una persona dalle caratteristiche positive lo rende ancora migliore, appunto, mentre se uno è un cretino, tale rimane, o lo diventa di più. Ed è inversamente proporzionale a quello che ci si immagina che lo stesso determini. E’un’emozione, un momento, in fin dei conti. Sono un teatrante e quello che vivo alla fine di uno spettacolo, lo devo ripetere il giorno dopo, quindi è una cosa effimera. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>A conclusione dell’intervista ti chiedo chi e cos’è un attore, a tuo parere…<br /></strong>Un operatore culturale, con un grande compito. Quello di leggere, imparare e trasmettere. Questo è l’attore, e questo fa, impegnarsi per dare alla gente la possibilità di conoscere cose in un modo che non potrebbe conoscere, altrimenti, in un altro.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Francesco Bettin</strong></p></div><div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/5fd6e6328fad90d498c3bb3d8b62d965_S.jpg" alt="Alessandro Preziosi. Foto Gabriele Galimberti" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: justify;">Si è laureato in giurisprudenza col massimo dei voti, a Napoli (sua città natale) e dopo un breve periodo di lavoro <strong>Alessandro Preziosi</strong> ha sentito di dover virare il suo percorso professionale verso il teatro, sua grande passione. Si è stabilito a Milano, ha studiato all’Accademia dei Filodrammatici, per poi debuttare nel’<em>Amleto</em> con la regia di <strong>Antonio Calenda</strong>. Ben presto ha iniziato a lavorare anche per la tv, dove ha ottenuto na grande notorietà interpretando il conte Fabrizio Ristori, in <em>Elisa di Rivombrosa</em>. Si è sempre alternato tra fiction, teatro e cinema, lavorando con registi come <strong>Armando Pugliese</strong>, <strong>Faenza</strong>, <strong>Baracco</strong>, <strong>Ozpetek</strong>, <strong>Pappi Corsicato</strong>, e mettendo in scena, come regista, diversi spettacoli (interpretati, anche) con elegante spirito visionario, come <em>Il ponte</em>, <em>Cyrano de Bergerac</em>, <em>Don Giovanni</em>, tutti di grande successo. Da diversi anni sta facendo un percorso di grande intensità e studio, e ricerca su testi anche classici, portandoli a teatro con efficacia e rigore stilistico. Ha appena terminato <em>Aspettando Re Lear</em>, di <strong>Tommaso Mattei,</strong> da Shakespeare, con cui ha debuttato all’Estate Teatrale Veronese, che ha portato in giro in una breve <em>tournèe</em> in Veneto, e che riprenderà. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quando pensi di riportarlo nei teatri, il tuo raffinato <em>Aspettando Re Lear</em>? <br /></strong>Abbiamo finito il primo turno, diciamo, e dovremmo riprenderlo nel 2024, portandolo nelle grandi capitali, Roma, Parigi, Milano. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quel verbo nel titolo, <em>Aspettando</em>, a cosa si riferisce esattamente? <br /></strong>Allude in maniera molto forte allo stato di nichilismo e di azzeramento che si ritrovano negli scritti di <strong>Samuel Beckett</strong>. La nostra idea, mia e di <strong>Tommaso Mattei</strong>, autore del testo, è quella di restituire l’aspetto apocalittico della tragedia di <strong>Shakespeare</strong>, di questa carambola incontrollabile nella quale i personaggi travolgono il sire e tutti quelli che sono intorno a lui. Considerando che è una tragedia dove tutti i personaggi muoiono, tranne Edgar, quell’attesa del Re Lear, quell’aspettare vuole in qualche modo aiutare lo spettatore, e voleva farlo anche con noi stessi durante l’adattamento. Prendere considerazione di tutti quegli aspetti che restituiscono una tabula rasa, una specie di non senso delle cose che annulla tutto ciò che invece ha senso. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Un po’ di similitudine con l’autore irlandese? <br /></strong>In qualche modo, in <strong>Beckett</strong>, i personaggi e le atmosfere suggeriscono quello. Da una parte. Dall’altra, nell’adattamento, nella scrittura, nel cercare di mettere a fuoco con la lente di ingrandimento i rapporti tra padre e figlio, Gloster, Edgar e Edmund, e Lear – Cordelia, dove l’attesa diventa invece un senso di speranza. Come se, in qualche modo questo senso del nulla, della morte del linguaggio attraverso il concetto del niente, della morte in vita, del morire prima di morire, come ho scritto nelle note di regia, dà appunto una grandissima aspettativa. E l’attesa è una forma di illusione, appunto, di speranza. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>In scena, sul palco, le opere del maestro Michelangelo Pistoletto, un grande protagonista dell’Arte povera. Opere che diventano scenografia. Come mai questa scelta? <br /></strong>Il maestro ha tre figlie…chissà…un certo destino? Quelle opere sono in grande armonia con lo spirito dello spettacolo. Devo dire la verità, però, è stata più una coincidenza che una scelta premeditata, una specie di occasione creatasi. Abbiamo incontrato <strong>Pistoletto</strong> durante una sua personale, al Chiostro del Bramante, a Roma, e accennandogli a quella che era la storia, e le motivazioni con le quali stavamo affrontando la riscrittura del Lear, il caso ha voluto che le sue opere rappresentassero in qualche modo quello che iconograficamente vedevamo nel nostro spettacolo, e potevano farne parte. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Un levare, un togliere, considerando Pistoletto. <br /></strong>Esatto, tutta arte povera, tutti oggetti in meno. Quindi un Re che parla di un regno che vuole dividere, che è un letto con una palla, un pulpito da dove parla che invece è una struttura per parlare in piedi, un tavolo delle trattative che è un segno porta. O ancora, una porta dove si entra e si esce che è l’uomo di Vitruvio. Arte in meno, elementi di cui liberarsi. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Una sfida, l’arte pura sul palcoscenico? <br /></strong>Fondamentalmente si’, quella che le opere di un artista, chi esso sia, possano essere visitate dall’attore e poi prendere vita e poter rappresentare anche una scogliera, una cornice, una corte dove processare le figlie. Una polifuzionalità delle opere che hanno generato forse il perno intorno al quale tutta la messa in scena, obbligatoriamente si è dovuta imperniare. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Nel frattempo, visto che sei un una pausa teatrale, sei pronto per qualche altra tua sfida? <br /></strong>Dopo la trilogia, Amleto, Cyrano, Don Giovanni, e ultimamente cimentandomi con <strong>Van Gogh</strong>, <strong>Pistoletto</strong> e <strong>Shakespeare</strong>, vorrei cominciare ad occuparmi di Dostoevskij. Lo scrittore russo credo possa essere un autore interessante con il quale confrontarsi soprattutto per quello che riguarda il concetto della fede. Credo sia un autore che più di altri renda moderno, fruibile il ragionato e il rapporto dell’uomo con l’aldilà. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>La vera forza del teatro, la sua potenza qual è secondo te? <br /></strong>Intanto quella forza è oggi indiscussa e indiscutibile a differenza delle difficoltà con i quali il cinema sopravvive. E’ un’incredibile realtà quella che il teatro vive oggi, molto rara. C’è sempre stata ma continua imperterrita anche nelle complicazioni di questi anni. La sua forza credo che sia quella di fare il paio con ciò che, al contrario, è la vita di tutti i giorni, che è velocissima e non permette di creare concentrazione rispetto a ciò che si vede. Ad esempio, ancora il cinema:,è difficile che un film possa lasciare spunti di riflessione, farsi delle domande rispetto a uno spettacolo. A teatro la grande forza è quella di rappresentarci, di farci vedere esattamente come siamo in quel momento. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Uno specchio di noi, quindi? <br /></strong>Un processo di condivisione di cui la gente ha bisogno perché è isolata, al di là della retorica dell’uso del telefonino, del rimanere a testa china sui propri oggetti, che poi è la velocità con cui si passa da un argomento a un altro e non si è parlato di nulla. Vedere dunque, inizio, sviluppo, narrazione e conclusione di uno spettacolo, è tanta roba. Credo che le persone in questo modo recuperino la propria dignità. Anche uno spettacolo come <em>Aspettando Re Lear</em>, dall’adattamento non facile, di elementi non così fruibili, tenta un incredibile maelstrom di contenuti, di emozioni, polifunzionalità, arte. Infatti su questo ultimo spettacolo del Lear stiamo realizzando un documentario, con lo stesso titolo.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Dove si potrà vederlo? <br /></strong>Al cinema. E racconterà in modo, credo, interessante, il rapporto tra il cinema, il teatro e l’arte, e lo stile documentaristico. Si vedrà l’arrivo delle opere, in teatro, il Goldoni di Venezia, con lo sviluppo narrativo attraverso molte scene girate all’Arsenale, a Palazzo Ducale e alla Fondazione Cini. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>C’è qualche sogno che ha in mente Alessandro Preziosi? Anche come uomo, intendo. <br /></strong>Beh, si’. Sogno di imparare a suonare il pianoforte come Dio comanda, continuo ad avere questa grande illusione che allo stesso tempo è una frustrazione. Lo suono, ma male. Mi piacerebbe suonarlo meglio…</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Magari per suonarlo sulla scena? <br /></strong>Certo. Il mio grande obiettivo è fare in teatro il <em>Faust</em>, di <strong>Thomas Mann</strong>. Con la musica, suonandola direttamente. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa ti ha dato e tolto il successo personale, il gradimento, l’essere amato dal pubblico? <br /></strong>Per quello che mi riguarda il successo mi ha migliorato come uomo. Credo di essere sempre stato una brava persona, ma oggi ancor di più, nel senso che se il successo incontra una persona dalle caratteristiche positive lo rende ancora migliore, appunto, mentre se uno è un cretino, tale rimane, o lo diventa di più. Ed è inversamente proporzionale a quello che ci si immagina che lo stesso determini. E’un’emozione, un momento, in fin dei conti. Sono un teatrante e quello che vivo alla fine di uno spettacolo, lo devo ripetere il giorno dopo, quindi è una cosa effimera. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>A conclusione dell’intervista ti chiedo chi e cos’è un attore, a tuo parere…<br /></strong>Un operatore culturale, con un grande compito. Quello di leggere, imparare e trasmettere. Questo è l’attore, e questo fa, impegnarsi per dare alla gente la possibilità di conoscere cose in un modo che non potrebbe conoscere, altrimenti, in un altro.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Francesco Bettin</strong></p></div>INTERVISTA A ANNA ZAGO - di Francesco Bettin2023-11-20T10:06:08+01:002023-11-20T10:06:08+01:00https://www.sipario.it/attualita/dal-mondo/item/15449-intervista-a-anna-zago-di-francesco-bettin.htmlFrancesco Bettin<div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/39fa5c978dcc6fcb2c9089ab6ccb2068_S.jpg" alt="Anna Zago. Foto Alice Mattiolo" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: justify;">Nel 2001 fonda assieme a <strong>Aristide Genovese</strong> e <strong>Piergiorgio Piccoli</strong>, a Vicenza, Theama Teatro, realtà che si espande nel tempo diventando sicuro punto di riferimento teatrale, molto attivo, nel Veneto ma non solo. <strong>Anna Zago</strong> è attrice, regista, responsabile formativo della compagnia, ha una grande esperienza recitativa e diretto numerosi spettacoli, partecipando a rassegne d’importanza nazionale, lavorando e collaborando con (tra gli altri) <strong>Massimo De Francovich</strong>, <strong>Eugenio Allegri</strong>, <strong>Giulio Scarpati</strong>, <strong>Anna Valle</strong>, <strong>Natalino Balasso</strong>, <strong>Giancarlo Marinelli</strong>. E’ certamente interprete sicura, lucida, anche per il cinema (ad esempio <em>Malacarne</em> di Lucia Zanettin), mentre a teatro è stata ottima interprete, e autrice, di <em>Clitennestra, I morsi della rabbia</em> al 73.mo Ciclo degli Spettacoli Classici del Teatro Olimpico di Vicenza. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Sei una delle “anime” di Theama Teatro. Come nasce questa vostra avventura? <br /></strong>Nasce nel 2001 insieme a <strong>Piergiorgio Piccoli</strong>, <strong>Aristide Genovese</strong> e <strong>Ester Mannato</strong>. Due famiglie unite nel segno dell’arte. Ci conoscevamo già da un po’, e avevamo già iniziato a lavorare insieme ma poi abbiamo strutturato meglio l’attività e creato la compagnia. Da allora poi all’interno di questa grande famiglia sono entrati altri artisti, una in particolare, che è con noi da tantissimo tempo, è <strong>Anna Farinello</strong>. La nostra avventura da allora ci vede impegnati sia nel campo della produzione teatrale sia in quello dell’organizzazione che della formazione, grazie anche al Teatro Spazio Bixio, a Vicenza, che gestiamo dal 2006 e che è ormai la nostra casa. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>E la storia tua personale? Una passione giovanile per il teatro, una predisposizione sentita? <br /></strong>È la classica storia di una passione nata sui banchi di scuola. Frequentavo il liceo classico e la mia scuola, che era il liceo Tito Livio di Padova, aveva una grande tradizione di teatro classico e frequentando il laboratorio teatrale mi sono appassionata sempre di più a questo tipo di espressione. Non ero convinta che sarebbe diventato il mio lavoro tant’è vero che il mio percorso di studi è andato in un’altra direzione: io sono laureata in architettura, ma il teatro è arrivato da me ugualmente e questa la considero una fortuna. Ad un certo punto del mio cammino di studi ho avuto un’occasione di lavoro in questo settore e ho deciso di coglierla. Da lì è iniziata la mia carriera teatrale parallelamente al mio percorso universitario. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quanto è necessario, a tuo avviso, una formazione dell’individuo che passi per questa disciplina? <br /></strong>Noi siamo impastati di fragilità. Ma la mentalità comune la associa alla debolezza. In realtà nella fragilità si nasconde quell’intuizione dell’invisibile della vita, (di cui il teatro come la poesia tratta) che ci consente di immedesimarci con più facilità negli stati d’animo e nelle emozioni degli altri. Questo significa prendersi cura di noi stessi come degli altri. Prendersi cura significa compromettersi con l’altro. Il teatro insegna a compromettersi, arrischiarsi, ma senza danno, anzi facendo fiorire l’umano. Credo che oggi questa necessità di fioritura sia l’urgenza vera del nostro vivere e credo che gli strumenti che il teatro può metterci a disposizione siano una chiave diversa per comprendere la vita che stiamo vivendo e i rapporti su cui la stiamo costruendo. Non so se ho risposto alla domanda però. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Certo, una bella riflessione. Ma in che stato versa oggi lo spettacolo dal vivo, a tuo parere? <br /></strong>Lo spettacolo dal vivo verso nello stesso stato in cui versa la società viva di cui è espressione e quindi credo che l’aggettivo più calzante sia a mio avviso …diviso, scisso, consapevole della crisi dell’individualismo, ma ancora incapace di un pensiero collettivo. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>La provincia può essere un osservatorio speciale per agire nel teatro, o essere a Roma sarebbe più bello, più costruttivo? <br /></strong>Io adoro la provincia e non credo che potrei vivere altrove. E non credo ci sia nessuna differenza dal punto di vista dell’agire teatrale tra la provincia e la grande città, non sono le dimensioni geografiche, ma il tipo di attività che fai, il come lo fai, e con quali obiettivi. Una volta che questo ti è chiaro il luogo dove sei non è importante, o meglio è importante nella misura in cui è il tuo luogo. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Un tuo progetto, qualcosa che ti sta a cuore, che vorresti realizzare al più presto c’è? <br /></strong>Credo sia una delle domande più difficili a cui rispondere. Potrei dirti che tutto quello che realizzo mi sta a cuore. Amo questo lavoro al punto che ogni progetto che affronto è il progetto.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Ti consideri attrice e regista a tutto tondo, o sei più inclina a un genere piuttosto di un altro? <br /></strong>Ho un animo contemporaneo e tragico che spesso prende il sopravvento. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Lo spettacolo che hai fatto che più ti è rimasto nel cuore? <br /></strong>Sono una appassionata di mitologia e di epica e negli ultimi anni mi sono dedicata molto a questo. Sto studiando e scrivendo tanto su questi argomenti, quindi posso dire che lo spettacolo che ha dato il via a questa mia azione è <em>Clitennestra - i morsi della rabbia</em>, con cui ho debuttato nel Ciclo dei Classici nel teatro Olimpico di Vicenza nel 2020. Questo spettacolo rappresenta un inizio importante per me anche dal punto di vista del lavoro drammaturgico, quindi sì,è questo che ho nel cuore. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Sei anche insegnante di teatro…come rispondono le giovani generazioni? <br /></strong>C’è interesse per questa forma artistica, e da cosa vengono incuriositi i giovani, per iscriversi a dei corsi? Ecco, qui si apre una parentesi molto importante. Esiste un interesse enorme ma del tutto inconsapevole. Il teatro rappresenta un’esperienza trasformativa dal punto di vista dell’educazione alla relazione con se stessi e con gli altri. Il teatro educa all’emotività, che oggi diventa sempre più necessaria per vivere all’interno di una società sempre più complessa, anche in rapporto al crescente sviluppo tecnologico che ha ridotto la comunicazione faccia a faccia, restringendo gli spazi della relazione. Dietro uno schermo telefonico, che diventa barriera, la nostra comunicazione si modifica in uno dei suoi aspetti fondamentali, quello relazionale emotivo. Perché quando i soggetti ai quali ci rivolgiamo non sono presenti e i corpi quindi non entrano in relazione, la lettura emotiva dell’altro subisce inevitabilmente una trasformazione. Giovani e meno giovani avvertono questo bisogno, in maniera indefinita ma pressante. Il punto è che spesso si confonde con il bisogno di emergere e di distinguersi. Non c’è niente di sbagliato in questo, ma è come se avessi il raffreddore e andassi in farmacia chiedendo di poter comprare dei calzini, ovvero sono nel posto giusto ma faccio la richiesta sbagliata. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Tornassi indietro rifaresti ancora questo mestiere? <br /></strong>Assolutamente! </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quale sarà la tua prossima sfida? <br /></strong>Nel 2024 mi aspettano tre nuove produzioni, tutte stimolanti: a gennaio sempre con Theama Teatro debutteremo con <em>La scuola dei mariti e delle mogli</em>, tratta dai testi di <strong>Moliere</strong>; a giugno mi confronterò con <strong>Jean Cocteau</strong> (due testi in uno.. davvero una bella sfida…) e per fine estate dovrei finire il lavoro iniziato già nel 2023 sul testo de <em>La signorina Margherita</em>, di Athayde. Insomma un anno impegnativo! Teniamo le dita incrociate!</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Francesco Bettin</strong></p></div><div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/39fa5c978dcc6fcb2c9089ab6ccb2068_S.jpg" alt="Anna Zago. Foto Alice Mattiolo" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: justify;">Nel 2001 fonda assieme a <strong>Aristide Genovese</strong> e <strong>Piergiorgio Piccoli</strong>, a Vicenza, Theama Teatro, realtà che si espande nel tempo diventando sicuro punto di riferimento teatrale, molto attivo, nel Veneto ma non solo. <strong>Anna Zago</strong> è attrice, regista, responsabile formativo della compagnia, ha una grande esperienza recitativa e diretto numerosi spettacoli, partecipando a rassegne d’importanza nazionale, lavorando e collaborando con (tra gli altri) <strong>Massimo De Francovich</strong>, <strong>Eugenio Allegri</strong>, <strong>Giulio Scarpati</strong>, <strong>Anna Valle</strong>, <strong>Natalino Balasso</strong>, <strong>Giancarlo Marinelli</strong>. E’ certamente interprete sicura, lucida, anche per il cinema (ad esempio <em>Malacarne</em> di Lucia Zanettin), mentre a teatro è stata ottima interprete, e autrice, di <em>Clitennestra, I morsi della rabbia</em> al 73.mo Ciclo degli Spettacoli Classici del Teatro Olimpico di Vicenza. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Sei una delle “anime” di Theama Teatro. Come nasce questa vostra avventura? <br /></strong>Nasce nel 2001 insieme a <strong>Piergiorgio Piccoli</strong>, <strong>Aristide Genovese</strong> e <strong>Ester Mannato</strong>. Due famiglie unite nel segno dell’arte. Ci conoscevamo già da un po’, e avevamo già iniziato a lavorare insieme ma poi abbiamo strutturato meglio l’attività e creato la compagnia. Da allora poi all’interno di questa grande famiglia sono entrati altri artisti, una in particolare, che è con noi da tantissimo tempo, è <strong>Anna Farinello</strong>. La nostra avventura da allora ci vede impegnati sia nel campo della produzione teatrale sia in quello dell’organizzazione che della formazione, grazie anche al Teatro Spazio Bixio, a Vicenza, che gestiamo dal 2006 e che è ormai la nostra casa. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>E la storia tua personale? Una passione giovanile per il teatro, una predisposizione sentita? <br /></strong>È la classica storia di una passione nata sui banchi di scuola. Frequentavo il liceo classico e la mia scuola, che era il liceo Tito Livio di Padova, aveva una grande tradizione di teatro classico e frequentando il laboratorio teatrale mi sono appassionata sempre di più a questo tipo di espressione. Non ero convinta che sarebbe diventato il mio lavoro tant’è vero che il mio percorso di studi è andato in un’altra direzione: io sono laureata in architettura, ma il teatro è arrivato da me ugualmente e questa la considero una fortuna. Ad un certo punto del mio cammino di studi ho avuto un’occasione di lavoro in questo settore e ho deciso di coglierla. Da lì è iniziata la mia carriera teatrale parallelamente al mio percorso universitario. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quanto è necessario, a tuo avviso, una formazione dell’individuo che passi per questa disciplina? <br /></strong>Noi siamo impastati di fragilità. Ma la mentalità comune la associa alla debolezza. In realtà nella fragilità si nasconde quell’intuizione dell’invisibile della vita, (di cui il teatro come la poesia tratta) che ci consente di immedesimarci con più facilità negli stati d’animo e nelle emozioni degli altri. Questo significa prendersi cura di noi stessi come degli altri. Prendersi cura significa compromettersi con l’altro. Il teatro insegna a compromettersi, arrischiarsi, ma senza danno, anzi facendo fiorire l’umano. Credo che oggi questa necessità di fioritura sia l’urgenza vera del nostro vivere e credo che gli strumenti che il teatro può metterci a disposizione siano una chiave diversa per comprendere la vita che stiamo vivendo e i rapporti su cui la stiamo costruendo. Non so se ho risposto alla domanda però. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Certo, una bella riflessione. Ma in che stato versa oggi lo spettacolo dal vivo, a tuo parere? <br /></strong>Lo spettacolo dal vivo verso nello stesso stato in cui versa la società viva di cui è espressione e quindi credo che l’aggettivo più calzante sia a mio avviso …diviso, scisso, consapevole della crisi dell’individualismo, ma ancora incapace di un pensiero collettivo. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>La provincia può essere un osservatorio speciale per agire nel teatro, o essere a Roma sarebbe più bello, più costruttivo? <br /></strong>Io adoro la provincia e non credo che potrei vivere altrove. E non credo ci sia nessuna differenza dal punto di vista dell’agire teatrale tra la provincia e la grande città, non sono le dimensioni geografiche, ma il tipo di attività che fai, il come lo fai, e con quali obiettivi. Una volta che questo ti è chiaro il luogo dove sei non è importante, o meglio è importante nella misura in cui è il tuo luogo. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Un tuo progetto, qualcosa che ti sta a cuore, che vorresti realizzare al più presto c’è? <br /></strong>Credo sia una delle domande più difficili a cui rispondere. Potrei dirti che tutto quello che realizzo mi sta a cuore. Amo questo lavoro al punto che ogni progetto che affronto è il progetto.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Ti consideri attrice e regista a tutto tondo, o sei più inclina a un genere piuttosto di un altro? <br /></strong>Ho un animo contemporaneo e tragico che spesso prende il sopravvento. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Lo spettacolo che hai fatto che più ti è rimasto nel cuore? <br /></strong>Sono una appassionata di mitologia e di epica e negli ultimi anni mi sono dedicata molto a questo. Sto studiando e scrivendo tanto su questi argomenti, quindi posso dire che lo spettacolo che ha dato il via a questa mia azione è <em>Clitennestra - i morsi della rabbia</em>, con cui ho debuttato nel Ciclo dei Classici nel teatro Olimpico di Vicenza nel 2020. Questo spettacolo rappresenta un inizio importante per me anche dal punto di vista del lavoro drammaturgico, quindi sì,è questo che ho nel cuore. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Sei anche insegnante di teatro…come rispondono le giovani generazioni? <br /></strong>C’è interesse per questa forma artistica, e da cosa vengono incuriositi i giovani, per iscriversi a dei corsi? Ecco, qui si apre una parentesi molto importante. Esiste un interesse enorme ma del tutto inconsapevole. Il teatro rappresenta un’esperienza trasformativa dal punto di vista dell’educazione alla relazione con se stessi e con gli altri. Il teatro educa all’emotività, che oggi diventa sempre più necessaria per vivere all’interno di una società sempre più complessa, anche in rapporto al crescente sviluppo tecnologico che ha ridotto la comunicazione faccia a faccia, restringendo gli spazi della relazione. Dietro uno schermo telefonico, che diventa barriera, la nostra comunicazione si modifica in uno dei suoi aspetti fondamentali, quello relazionale emotivo. Perché quando i soggetti ai quali ci rivolgiamo non sono presenti e i corpi quindi non entrano in relazione, la lettura emotiva dell’altro subisce inevitabilmente una trasformazione. Giovani e meno giovani avvertono questo bisogno, in maniera indefinita ma pressante. Il punto è che spesso si confonde con il bisogno di emergere e di distinguersi. Non c’è niente di sbagliato in questo, ma è come se avessi il raffreddore e andassi in farmacia chiedendo di poter comprare dei calzini, ovvero sono nel posto giusto ma faccio la richiesta sbagliata. </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Tornassi indietro rifaresti ancora questo mestiere? <br /></strong>Assolutamente! </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quale sarà la tua prossima sfida? <br /></strong>Nel 2024 mi aspettano tre nuove produzioni, tutte stimolanti: a gennaio sempre con Theama Teatro debutteremo con <em>La scuola dei mariti e delle mogli</em>, tratta dai testi di <strong>Moliere</strong>; a giugno mi confronterò con <strong>Jean Cocteau</strong> (due testi in uno.. davvero una bella sfida…) e per fine estate dovrei finire il lavoro iniziato già nel 2023 sul testo de <em>La signorina Margherita</em>, di Athayde. Insomma un anno impegnativo! Teniamo le dita incrociate!</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Francesco Bettin</strong></p></div>