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Corriere Lombardo, 10 marzo 1955

Se mi volete sincero fino in fondo, vi confesserò che, pur ammirandolo per quel capolavoro che è, personalmente non ritengo affatto l’Edipo re il capolavoro del teatro greco in generale, e nemmeno di Sofocle in particolare. L’ho detta. Tutti i gusti son gusti, dovete aver pazienza. Il torto sarà certamente mio, ma gli preferisco il Filottete; e non parliamo di Elettra o di Antigone, per non disturbare Edipo a Colono.

Quando si vola a certe altezze, ci si può anche concedere il lusso di fare gli schizzinosi e permettersi di spostare la bandiera dell’Himalaia al K2 abbassando di un palmo il tetto del mondo. Ciò che mi mette in sospetto, vedete, è proprio la geniale trovata che fa da perno all’Edipo re; quella che, attraverso i secoli, non ha mai cessato di meravigliare lettori e spettatori; e alla quale è prevalentemente affidata la gloria dell’opera; il suo procedere a sorpresa, con gli oracoli alternativamente smentiti e confermati e infilando, per così dire, una serie d’oro di colpi di scena, atti a mantenerci col fiato sospeso e dove la semplice curiosità viene cimentata in misura non minore di quanto l’animo non risulti commosso.

Per una tragedia greca si concede un po’ troppo al palcoscenico. Tanto che qualcuno, credendo di enunciare un paradosso, scopriva, in fondo, una verità parlando di illustre anticipazione dell’odierna tecnica poliziesca. E infatti, se ci è capitato più di una volta di venir a conoscere alla fine che proprio l’investigatore era l’assassino che si cercava, non è mai più accaduto di scoprire che l’investigatore fosse l’assassino e per giunta senza sapere di esserlo stato. Ne tenga conto qualche attento autore di “gialli”. Gli potrà servire.

Divagazioni a parte, ho l’impressione che la sorprendente bravura onde è governata la tragedia, con quel tanto di cerebrale e di preordinato che ciò naturalmente comporta, ne contamini alquanto la sua sacralità; ed anche l’umanità che è la grande scoperta di Sofocle sia costretta a camminare sulle punte compiendo un vero miracolo nel riuscire a ostendersi con tanta magnanima austerità e senza escludere le luci e le ombre, le fiducie e i vacillamenti, le sicurezze e i dubbi, le fermezze e gli sgomenti; la dignità nella vergogna, i pudori di sposo e le tenerezze di padre, e soprattutto il bisogno di verità a costo della propria rovina, con cui il figlio di Lajo affronta i colpi del destino senza distogliere mai, per nessuna ragione, religiosa, politica o familiare che sia, lo sguardo dalle profondità della propria coscienza. La folgore che colpisce è sempre in mano agli dei, ma la facoltà di giudicare e di condannare è già passata in quella dei mortali. Siamo all’ultima tappa di un cammino arduo e doloroso che, sotto la volta, remota e indifferente di un cielo misterioso e impenetrabile, trasforma i semidei in eroi e gli eroi in uomini. Semmai, l’importanza dell’opera, limitatamente al nostro tempo, importanza che, naturalmente, non è obbligata a coincidere col suo valore poetico assoluto, consiste – e questo sì è sorprendente – nella intuizione dell’inconscio come segreto motore di tutte le attività umane, capace di trascinare l’individuo, suo malgrado, negli abissi dell’abbiezione, della perdizione e della disperazione; esattamente nel significato che, circa due millenni e mezzo più tardi, gli doveva dare Freud.

C’è tutto, dal delitto respinto nell’inconscio, all’identificazione col padre dopo averlo tolto di mezzo, all’usurpazione del suo posto presso la madre nel senso più esteso, fino all’incesto. Sotto questo punto di vista, la tragedia, tappa per tappa del suo svolgimento, può essere presa come un esempio di indagine psicoanalitica, dove la rassegnazione alla propria sorte dolentemente accettata dopo l’autopunizione per questo atroce, e che ha in sé persino la tipica simbologia della autocastrazione per colpa sessuale, cade nel punto preciso in cui le ultime ombre del subcosciente raggiungono la luce liberatrice della conoscenza razionale dell’ “io”, e cessa l’angoscia della conquistata consapevolezza che si libera con alata serenità di canto nell’Edipo a Colono. Sul piano religioso, Edipo si acceca perché ha voluto vedere fino in fondo la Verità, sacro attributo degli dei; ma, sul piano psicologico, egli si cava gli occhi perché ha veduto – e goduto – il grembo della propria madre infrangendo un intoccabile tabù.

E qui cade acconcio il discorso sulla interpretazione al quale ci premeva di arrivare. Le grandi opere del passato possiedono il meraviglioso privilegio di offrire ad ogni epoca, vorrei dire ad ogni generazione, la possibilità, cimentandosi con esse, di confessare animo, gusti, credenze adattandosi come un guanto alla mutata sensibilità. Rivelano, in ciò, non so che misteriosa essenza di creature vive che crescono, mutano, aderiscono al tempo germogliando significati continuamente nuovi e diversi sullo sfondo di alcuni valori eterni. Stiamo pur certi che l’Edipo degli umanisti del Cinquecento non era quello dei Romani, come l’Edipo dei romantici non è il nostro. Ad ogni epoca il proprio e ad ogni interprete il suo. Ogni lettura ed ogni esecuzione sono innanzitutto un esercizio critico con risultato più o meno e talvolta moltissimo differenti l’uno dall’altro e tutti legittimi, purché colui che li propone possieda il talento necessario.

In Edipo, Vittorio Gassman ha visto prevalentemente l’uomo, il più vicino possibile a noi. E con un ardimento e un rigore che fanno onore alla sua intelligenza, ha inteso importarne in primissimo piano la sciagurata e dolente biografia, trascurando e deprimendo deliberatamente quelle componenti eroiche e regali sulle quali si era generalmente puntato nell’interpretazione del personaggi fino ad ora. Il re e l’eroe in questa sua creazione potentemente originale hanno poco da dire e meno da rivelare.

Il suo programmatico “largo all’uomo” non poteva non avere per conseguenza un totale disinteresse per quella opinabile e generica dimensione del “fare classico” tradizionalmente di rigore in questi casi e, nove volte su dieci, risolta in accademica maniera. Non solo ma, coerente fino in fondo, egli ha anche evitato di proposito, e forse forse qui con un tantino di provocante intenzionalità polemica, di inventare le buone intenzioni di una finta e formalistica religiosità genericamente ieratica, nella quale, diciamolo francamente, nessuno avrebbe creduto ma che era sempre sembrata uno di quei doveri di cultura equivalenti pressappoco all’erezione di false rovine nei giardini delle ville dei pescicani. Ciò, ovviamente, ha comportato delle soluzioni piuttosto drastiche specie nei riguardi del coro, croce e delizia di tutte le regie affette dal complesso della letteratura.

Tutte condizioni le quali possono, ben s’intende, legittimare la perplessità dei filologi, il che è comprensibile, e che desteranno i malumori dei tradizionalisti e dei conservatori che “ricordano Salvini”, il che lo è molto meno. Gassman, ad ogni modo, avrà sempre buon gioco invitandoli a riflettere all’adesione alla partecipazione all’umana cordialità che, così com’egli lo presenta, il personaggio desta nel pubblico. E a teatro è la cosa più importante.

Nel testo di Sofocle i primi dieci minuti di Edipo sono solari. È l’eroe senza sospetti in tutta la pienezza della propria energia di capo e di guida di un popolo terrorizzato dall’ira del cielo che ha scatenato la pestilenza nella città rea di ospitare l’ignoto assassino del buon re Laio. Egli rassicura, decide, comanda; cimenta il fato con baldanza e con arroganza, senza che nemmeno l’ombra di un’incertezza lo sfiori. L’Edipo di Gassman invece esordisce già esitante, allarmato e insicuro, con un velo di imbarazzo che è come il preludio di un’imminente vergogna. Entra quasi umile. Senza un preciso perché. Si indovinano nel suo animo indefinite inquietudini, oscure ambiguità, un malessere della coscienza inesplicabile, un vago senso di attesa che lo attrae e lo respinge ad un tempo. Intravede già senza saperlo i fantasmi di una colpa ancora inafferrabile. Egli è assediato dalla prossima angoscia. L’eroe, si propone già quale vittima, e come uomo votato alla sventura si offre fraterno allo spettatore e ne ottiene subito la solidarietà, una solidarietà che ieri sera s’è conclusa in un vibrante successo per l’interprete e per lo spettacolo che Piero Zuffi ha genialmente inquadrato in una scenografia barbarica, con ciclopiche masse architettoniche, sotto un cielo inibente e minaccioso da tregenda in una luce sulfurea e fosca, entro la quale si muovevano costumi di coloro torbido percorsi da riflessi funerei.

Hanno condiviso le acclamazioni Anna Proclemer Giocasta di drammatica verità, Mario Feliciani virile Creonte; il Bertini, il Piazza, il Giangrande che sostituiva Lamberto Picasso indisposto; e Giulio Bosetti che fu un messo svincolato dalla tradizione declamatoria di tutti i messi e sarebbe da lodare senza riserve se si dimenticasse dell’esistenza di Antonio Crast ed evitasse di rifarne le cadenze. Quanto alla traduzione, argomento che si ha il torto di trascurare sempre, essa era di Salvatore Quasimodo e la sua precisione, la sua limpidezza, la sua discorsività e soprattutto la sua modernità hanno facilitato parecchio l’originalità antitradizionale conferita da Gassman alla tragedia. Forse nell’intenzione di intenerire l’ira di Apollo persecutore d’Edipo, grandi mazzi di garofani purpurei decoravano la platea. In altre parole, anche la direzione del teatro s’era preoccupata di fare la sua offerta votiva. Un modo come un altro di toccar ferro.

Carlo Terron

Ultima modifica il Domenica, 14 Dicembre 2014 11:45
La Redazione

Questo articolo è stato scritto da uno dei collaboratori di Sipario.it. Se hai suggerimenti o commenti scrivi a comunicazione@sipario.it.

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