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Federico GARCIA LORCA - La casa di Bernard Alba

Corriere Lombardo, 22 aprile 1955

Non è proprio possibile che Sarah Ferrati, dopo aver scelto  la libertà, receda dall’annunciato proposito di abbandonare il Piccolo Teatro? Perché? La sua superba interpretazione di ieri sera s’è risolta in un successo personale ed ha dimostrato anche ai ciechi quanto reciproco sia il vantaggio della collaborazione fra una grande individualità di interprete moderna e uno stabile teatro d’arte; quale lustro, quale autorità e quale richiamo costituisca la prima per il secondo; e quale garanzia di ben figurare e di apparire nella meritata valorizzazione – ove ne sia compresa e rispettata la personalità – rappresenti il secondo per la prima. Crepi il pessimismo, noi vogliamo sperare ancora in una resipiscenza. Siamo persuasi che, a lungo andare, riusciranno a mettersi d’accordo perfino l’America con la Russia. Possibile, una volta stabilito, quale dei due rappresenti l’America e quale la Russia, che non possa avvenire altrettanto fra una prima attrice e una impresa teatrale? Rimanendo in fiduciosa attesa di un onorevole trattato di pace, segnaliamo frattanto uno stupendo ritratto femminile di più da appendere nella già fitta galleria di Sarah Ferrati.

La data scritta in calce a La casa di Bernarda Alba – già nota a Milano per essere stata rappresentata sette od otto anni fa, regista Vito Pandolfi, protagonista Wanda Capodaglio – precede di poche settimane l’assassinio politico di Federico Garcia Lorca, compiuto da ciechi fratricidi, inabili non soltanto a distinguere gli innocenti, ma anche incapaci di riconoscere i poeti. Delitto tanto più grave, in quanto, nella produzione teatrale dello scrittore, non sempre convincente, questo autentico e unico capolavoro non costituisce un punto d’arrivo, bensì un punto di partenza. “Niente letteratura, teatro puro!” era stato il suo grido illuminante nell’accingersi a vergare le prime battute. Opera prima, dunque, e solitaria, di un moderno teatro spagnolo che non fu potuto scrivere.

La scoperta consisteva in un realismo favoloso e incandescente, gonfio di fatalità, finalmente svincolato dai preziosismi e decandentismi letterari e dai decorativismi folcloristici precedenti; il quale riscattava il proprio lirismo esprimendolo, per la prima volta, come era già accaduto nelle maggiori poesie, dall’intimo della propria materia, condizionata miticamente ai più gelosi, segreti e misteriosi motivi della razza e della terra, coi propri tabù primitivi dove il controllo dei sentimenti finisce con l’essere travolto dalla elementare violenza del sangue, dove la norma religiosa e morale si degrada a superstiziosa e feroce deformazione della convenienza civile, dove la  libertà della condizione umana è rimasta prigioniera del conflitto onore contro passione, dove l’istinto non può non trionfare ma non può nemmeno non soccombere. Fedeltà a una poesia, quella di Lorca, che quando è poesia ricrea con occhi nuovi l’universo; e nulla deve alla memoria, alla tradizione e alla filologia: i tre pilastri fondamentali, o, se volete, le tre pesanti palle al piede della poesia europea da quattro secoli a questa parte.

Il dramma, o per meglio dire la tragedia, poiché La casa di Bernarda Alba preannunciava un moderno autentico teatro tragico, comincia con un funerale e finisce con un suicidio. Al ritorno, dopo aver dato sepoltura al suo secondo marito, la dispotica Bernarda Alba, spietata custode della “rispettabilità” della sua casa, annuncia otto anni di lutto stretto alle sue cinque figlie. Quel che significhi questo feroce ossequio a una regola secolare del piccolo paese andaluso, per una famiglia composta di sole donne, è facilmente immaginabile. Le ragazze, che vanno dai quaranta ai vent’anni, e, eccettuata la più anziana, Angustias, la quale, essendo figlia di primo letto, possiede una piccola dote, sono abbastanza agiate per rappresentare un’autorità nel paese ma non lo sono a sufficienza per sperare in un matrimonio, hanno la sorte segnata delle sepolte vive.

Sbarrate porte e finestre, chiuse nelle loro funeree vesti, educate a dover reprimere ogni desiderio, ogni speranza, ogni pensiero che non sia almeno formalmente casto, senza altra distrazione che i discorsi dai sottintesi salaci della vecchia serva Ponzia, sotto l’occhio spietato della madre, col sole a picco sul patio della casa dalle mura calcinate d’un bianco accecante, e fuori la campagna dove esulta e si rinnovella continuamente e freneticamente – terra, animali e creature umane – il ciclo della fecondazione; e l’amore sotto la specie più semplice, antica e naturale governa l’esistenza, avvampano di cupa, febbrile e repressa sensualità, ossessionate dall’idea dell’uomo, del maschio concepito come mitologico demone, in preda a una frenesia da inconfessate mitomani erotiche, travolte dalla vertigine appena una voce, un canto, un passo, un odore di uomo filtrino dai muri.

L’uniformità di un’esistenza esteriormente ordinata e dalla apparenza tranquilla ricopre malamente una polveriera prossima a saltare in aria. Fin che si sentono tutte eguali, tutte votate ad una sorte comune; le giovani e le anziane, le belle e le brutte, le rassegnate e le ribelli; la esuberante e attraente ventenne Adela come la deforme, intristita e solitaria Martirio, una sorta di solidarietà nella sventura le tiene unite. Appena una di esse avrà la possibilità di uscire da quel carcere e farsi una vita sua, diventeranno ostili, armate l’una contro l’altra di sospetti, di risentimenti, di livide gelosie, di egoismi impietosi, di gelosie implacabili; e l’unico sentimento in comune sarà l’odio.

L’occasione si presenta naturalmente nell’unico e fatale modo in cui essa può offrirsi in un dramma di sole donne: l’uomo. La piccola dote di Angustias ha fatto gola a un rude ed aitante giovanotto: Pepe il Malaguegno, l’autentico protagonista assente. Angustias si mariterà. I due si fidanzano; e si “parlano” attraverso le inferriate del muro: lei nella sua stanza, lui sulla strada. Questo è consentito dalle abitudini del paese. Ma Adela è giovane e bella e Angustias è vecchia ed appassita: sarà facile ad Adela portare via il maschio alla sorella. E lo fa d’istinto, senza riguardi apparendogli seminuda attraverso le imposte della sua camera. Angustias l’avrà come marito, per la dote; lei lo avrà come uomo, per amore. Ma bisogna fare i conti con la gelosia occhiuta delle sorelle: di Martirio, soprattutto, perdutamente presa, e senza speranza, di Pepe; che può ancora tollerare di pensarlo di una di loro senza amore, ma non può rassegnarsi all’idea che nutra desiderio e passione vera per un’altra; bisogna fare i conti con la lubrica malignità di Ponzia; e soprattutto con la implacabile tirannide della madre.

La tragedia esplode anche troppo presto. E vana è la rivolta di Adela che s’è data a Pepe e lo grida in faccia alla famiglia e vuol fuggire con lui, essere la sua donna al di fuori di ogni convenzione moralistica. Bernarda imbraccia un fucile e spara una schioppettata contro Pepe che riesce a salvarsi con la fuga, mentre Adela si impicca. Ora nessuno deve sapere. Nessuno deve sospettare che qualche cosa di men che limpido offuschi l’onore della casa di Bernarda Alba. “Vestitela di bianco!”, ordina la terribile despota, “mia figlia è morta vergine”. Soltanto questo conta in faccia al mondo; il resto è secondario e deve restar chiuso nella tomba dei cuori rinserrati, nella tomba della casa.

Materia e linguaggio della tragedia sono la stessa cosa. Parole che hanno l’asprezza, il peso e la modellatura della pietra. Un blocco unitario di tesa e violenta drammaticità corale, appena disturbato stilisticamente dalle fugaci apparizioni un tantino letterarie dell’avola pazza con attribuzioni simbolistiche; ma nel cui spessore si dibattono veementi drammi singoli, tutti accordati sul medesimo tema e tutti diversissimi per il modo e per il tono onde reagiscono i vari temperamenti. Ma il maggiore di essi, tanto più potente e complesso quanto meno dichiarato e tutto sottinteso, è quello della protagonista, col suo orgoglio divorante; nemica della libertà e della vita, bloccata come madre e oppressa come donna dai suoi ancestrali tabù moralistici, torturatrice e vittima al servizio di un deformato e meschino sentimento dell’onore che rende privo di carità ogni suo gesto e ogni sua parola, confinandola in una solitudine ostile e maledetta senza nemmeno l’ipotetico conforto di un barlume di umana comprensione da parte di chi ne deve subire il dominio. Indimenticabile.

Rifuggendo dalla benché minima convenzionalità, regolandosi sulla ben nota onniveggente intelligenza critica, e con un rigore di controlli perfino un po’ eccessivo, Sarah Ferrati è riuscita ad annullare completamente sé stessa, temperamento e modi, quasi per così dire a lasciarsi invadere e modellare dal personaggio, estraendo da esso, e da esso soltanto, toni, atteggiamenti, impulsi e reazioni; isolandolo in una tragica incomunicabilità, la cui energia, incrinata da impercettibili mancamenti e fuggevoli stanchezze, ha fatto indovinare un’interiore disperazione. E’ un’interpretazione che cimenta, momento per momento, l’intelligenza dello spettatore. E la platea, ieri sera, è stata intelligente.

Con lei hanno meritatamente condiviso gli onori della serata: Valentina Fortunato, subdola e invelenita Martirio, Marina Dolfin, drammatica e ribelle Adela, Giusi Dandolo, perfida e aggirante Ponzia, Teresa Franchini che con un pezzo di bravura si fece applaudire a scena aperta; e poi: Pina Cei, Miranda Campa, Olga Gherardi, Narcisa Bonati, Myriam Pisani e varie altre.

Della minuziosa e penetrante regia a maglie allentate dello Strehler, artefice dello spettacolo, sono risultati particolarmente a fuoco certi ritmi lenti e tesi fra pause e sospensioni cariche di fatalità del secondo e terz’atto. Funerei costumi di Ezio Frigerio e bella assai la scena dell’ultimo atto di Luciano Damiani.

Carlo Terron

Ultima modifica il Venerdì, 12 Dicembre 2014 12:24
La Redazione

Questo articolo è stato scritto da uno dei collaboratori di Sipario.it. Se hai suggerimenti o commenti scrivi a comunicazione@sipario.it.

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