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John B. PRIESTLEY - Svolta pericolosa

Corriere Lombardo, 3 dicembre 1952

Qualcuno stamattina vi avrà probabilmente raccontato che si tratta di un dramma giallo. Non credetegli. Dangerous corner di John B. Priestley ha ambizioni e meriti più alti e alquanto differenti. Se riconosce una parentela, questa commedia, che ha compiuto i vent’anni ma non li accusa, non è con Wallace oppure con la signora Christie, bensì con Luigi  Pirandello. Gratta gratta, tutto il miglior teatro europeo da cinque lustri a questa parte almeno, deve qualche cosa a Pirandello – anche se poi qualche ameno recensore nostrano sentendo il bisogno di dire la sua su una ripresa dei Sei personaggi in cerca d’autore va ancora… in cerca del “fatto” e poi non lo trova del tutto coerente.

Svolta pericolosa non è altro che un’inchiesta di più sulla coscienza dell’uomo contemporaneo il quale, quando si impegni ad inseguire la verità fino in fondo, costi quello che costi, rischia di dover rinunciare per sempre a quelle necessarie illusioni fatte di cecità più o meno inconsapevoli e di compromessi e finzioni più o meno accettati, che ci aiutano a vivere e a tirare avanti nel consorzio civile; tipico e fondamentale motivo pirandelliano come si vede; e basti ricordare Così è (se vi pare) a cui i tre atti di ieri sera, senza parere, debbono assai più di quanto sono disposti a confessare pur senza nemmeno lontanamente eguagliarla. Tra la prima e i secondi corre, tanto per intenderci, la differenza  che passa fra un autentico capolavoro e una commedia scaltra e intelligente. Ciò non vuol dire che essa sia disprezzabile. Anzi, tutt’altro.

Dello stesso autore il pubblico forse ricorderà Un ispettore in casa Birling malamente accolto qualche anno fa, al Nuovo se non sbaglio. Svolta pericolosa, che lo ha preceduto, è una variazione teatralmente più riuscita e idealmente meno orginale e suggestiva dello stesso tema. L’una come l’altra appartengono al repertorio di un Priestley che non aveva ancora scoperto e approfondito quella metafisica del tempo e dello spazio alla quale si debbono le sue opere più importanti e personali, così singolarmente affini alla inventiva del nostro Silvio Giovaninetti.

Come molte conseguenze gravi e irreparabili, anche qui tutto comincia da un’inezia. Ed ecco la storia. Un uomo, Martino, ancora nel fior dell’età e apparentemente privo di problemi, è stato trovato morto con una rivoltella in mano nel cottage di campagna che era la sua dimora da scapolo gaudente. Insieme a un fratello ammogliato, al fratello della cognata – pure con moglie - e a un altro amico privo di consorte, egli faceva parte, come socio, di una casa editrice. Pochi giorni prima era mancato un assegno di 3.000 sterline emesso dalla società. Tutto appare chiaro e coerente: Martino s’era impossessato dell’assegno e piutosto che affronatre lo scandalo e il disonore aveva preferito suicidarsi. I fatti, dice sempre Pirandello, sono come dei sacchi vuoti che stanno dritti soltanto quando contengono i loro motivi segreti e profondi. E, in questo caso, il motivo c’era. Almeno così era parso; o aveva fatto comodo che così paresse, che è, in un certo senso, la stessa cosa.

E’ trascorso un anno. Una sera, nella casa del fratello di Martino, sono riuniti i tre soci rimasti, le mogli dei due d’essi che sono sposati, e una segretaria della società la quale più che un’impiegata è un’amica intima della esemplare e onorata compagnia unita come una famiglia. Quando un parente muore, si sa, si eredita qualche cosa. Fra le altre cose è finito in quel salotto un portasigarette del morto. Un oggetto da nulla ma, come si vedrà, più esplosivo  disastroso di un pallottola dum-dum. La padrona di casa, Freda, e cioè la cognata del suicida, offre una sigaretta alla sua amica Olwen, la segretaria della società. “Ma io questo portasigarette l’ho già visto,” scappa detto a quest’ultima. “Nel suo interno deve esserci un carillon”. Difatti, il carillon c’è. “Non è possibile che tu lo possa aver visto” – ribatte la cognata dello scomparso. “Non mi sbaglio”, insiste quell’altra”.

E via di questo passo: “ti sbagli non mi sbaglio”, il piccolo battibecco stimola la curiosità del padrone di casa (fratello del defunto e marito di Freda) uomo pericolosamente amico della verità. Scappa fuori che il portasigarette era un regalo di sua moglie al suicida portatogli poche ore prima che morisse.

Da qui, a ritmo di mitragliatrice, comincia la serie delle sorprese, una più inaspettata dall’altra. E’ una specie di gorgo, di tromba marina che coinvolge e travolge tutti e sette i convenuti senza lasciar libero e senza lasciar pulito nessuno di essi. Ve li elenco, sperando di non confondere me stesso, dopo aver confuso voi, nel tentativo di riferire il lucidissimo garbuglio: Martino non ha rubato l’assegno, anzi credeva che il ladro fosse stato il fratello; la segretaria sapeva dell’innocenza del morto e credeva altrettanto, ma si era guardata bene dal dirlo perché è innamorata morta del presunto colpevole. Ma nemmeno il sospettato è reo del furto. Il socio scapolo aveva dato ad intendere ad entrambi che il colpevole fosse l’altro. Messo in chiaro questo punto è evidente che il vero reo è stato il socio scapolo.

Né è finita qui, anzi incomincia appena. Ecco il resto: il poveruomo che vuol sapere troppo viene accontentato; sua moglie era stata l’amante di suo fratello, come Francesca da Rimini e Paolo Malatesta; ma anche il fratello di sua moglie – un altro dei soci cioè – era stato morbosamente innamorato, e fors’anche qualche cosa di più, dell’ enigmatico Martino, da quell’uomo nevrotico e anormale e da quel marito inservibile, sotto l’apparenza di un matrimonio esemplare, che egli è. Poteva, a questo punto, restare esclusa la moglie di quest’ultimo? Nemmen per sogno. Essa è stata l’amante del socio scapolo e ladro della onorata compagnia. C’è altro? Sventato che sono. Mi dimenticavo il più: Martino non si è suicidato. E’ stato ucciso per accidenti da Owen, la segretaria, che fu l’ultima a vederlo, nel tentativo di difendersi dagli assalti delle sue brame sconvenienti.

Padronissimi di credere che questa matassa apparentemente inestricabile di avvenimenti eccezionali ribaditi a catena risulti arbitraria, romanzesca e confusa. Essa è quanto di più lucido, coerente e conseguente si possa immaginare. Il suo refe, tormentato di nodi, ognuno dei quali è stato fatto da un serpente annidato nella coscienza di coloro che vi si trovano impigliati, è teso come il filo di una spada da un linguaggio che ha la matematica trasparenza di un gioco di precisione del quale il vero protagonista finisce con l’essere il personaggio che non appare in scena: il morto con la immagine che di  lui ciascuno si è formata a proprio comodo: sette Martini per così dire, l’uno diverso dall’altro. Semmai ciò che finisce col limitare la risonanza e la suggestione stessa della tanto suggestiva commedia è proprio la implacabilità della sua precisione meccanica; quell’inebriarsi ed esaurirsi in un vertiginoso gioco a spirale dell’intelligenza; che resta fine a sé stesso, e quanto più acquista in perfezione e trasparenza formale, tanto meno guadagna in quell’estensione umana e in quel significato morale che pur – si sente – stanno tanto a cuore all’autore.

La medesima svolta pericolosa denunciata nel titolo esiste nella struttura della commedia. Fermi restando la sua amarezza, il suo pessimismo e la spietata crudeltà di un’inchiesta decisa a impegnare le coscienze, c’è un punto oltre il quale si sente che essa potrebbe indifferentemente diventare una farsa come una tragedia. A tale risultato, a vero dire un po’ equivoco ed ambiguo, contribuisce anche la conclusione che confesso di non aver afferrato bene se risponda a una preoccupazione di prudenza in extremis, oppure a una deliberata intenzione simbolistica. La storia finisce con un nulla di fatto. I personaggi vengono ricondotti alla fine tali e quali come all’inizio, colti mentre stanno ascoltando alla radio una commedia che, anch’essa, ricerca la verità.

La mordente puntualità della scrittura, tradotta in italiano con puntualità altrettanto mordente da Sandro Brissoni, è stata resa in ogni minimo particolare e in ogni sfumatura dalla stupenda esecuzione dovuta a una regia non firmata ma degna di una grande firma e che ha subito affascinato il pubblico del Manzoni persuadendolo ad applausi calorosissimi. Ogni attore dell’eccellente compagnia andrebbe nominato per primo tanta è stata la chiarezza, l’evidenza, la pulizia e l’eleganza della recitazione; da Olga Villi a Giovanna Galletti, da Zora Piazza a Vittorina Benvenuti, da Carlo Ninchi ad Aroldo Tieri e ad Achile Millo. E non certamente per ultimo dovrebbe essere segnalato Virgilio Marchi autore delle magnifiche scene.

Carlo Terron

Ultima modifica il Mercoledì, 10 Dicembre 2014 00:43
La Redazione

Questo articolo è stato scritto da uno dei collaboratori di Sipario.it. Se hai suggerimenti o commenti scrivi a comunicazione@sipario.it.

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