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Thornton WILDER - La sensale di matrimonio, regia Franco Enriquez

Corriere Lombardo, 15 febbraio 1956

Cos’è il tempo, creature! Esso tarla gli altari, sbriciola gli idoli, polverizza i maestri. Bisogna appartenere alla generazione dei quarantenni per sapere e valutare ciò che ha voluto dire, per noi, la rivelazione, in una sera di tempesta conclusasi in gloria, della Piccola città. E’ stata una di quelle rare date alle quali la gioventù appende il proprio cuore. In seguito – viltà? pigrizia? fedeltà alle memorie? – l’abbiamo lasciato là senza pensarci, senza volerci pensare più, forse per non essere costretti ad accorgerci che esso era avvizzito e appassito senza che ce ne rendessimo conto, sospeso a un chiodo che avevamo creduto di oro fino e che, perduto lo smalto, si era rivelato, anch’esso, una volta di più, del semplice ferro che era andato arrugginendo.

Thornton Wilder è stato il nostro sole e la nostra bandiera. Con Piccola città avevamo salutato il ritorno della poesia e la fine del cerebralismo a teatro. Ma una poesia nuda, discreta, intima; casta come i limpidi cieli mattutini lavati dalla pioggia notturna; malinconica come il segreto, mesto e ininterrotto funerale dei sogni che ognuno di noi celebra nella propria anima; spoglia di ogni aspetto, di ogni eloquenza, di ogni frangia esornativa. Che Dio ci perdoni, per Thornton Wilder fummo lì lì per rinnegare Pirandello. Bastarono i suoi atti unici, rinforzati da una mezza dozzina di Nô giapponesi, a darci la presunzione di una rivoluzione; a far vivere di rendita morale, per almeno un lustro, tutti, senza eccezione, i teatri Guf della penisola. Generoso inganno. Fors’anche utile e fecondo inganno, ma avevamo scambiato per originale intuizione lirica una raffinata educazione letteraria; avevano preso per una poetica nuova quella che era soltanto una nuova retorica, per poesia una semplice tecnica. Abbiate pazienza, per quanto triste possa essere congedarsi dalle proprie illusioni, prima o dopo, era doveroso e giusto questo esame di coscienza e relativa chiamata di correi.

Già le sue coltivate e squisite pagine narrative, e poi, ancora, quella sosfisticata allegoria da erudito classicheggiante che fu La famiglia Antropus avrebbero dovuto aprirci gli occhi. No, Thornton Wilder non era né voleva, forse, nemmeno essere quel demiurgo della scena moderna a cui noi, in mancanza di meglio, lo avevamo promosso. Egli era semplicemente un amabile  letterato, un po’ corto di fantasia; uno dei rarissimi americani che sapessero scrivere bene, che sentissero il bisogno indispensabile di una tradizione dietro di sé, e che fossero andati a cercarla in Europa. Egli era, in un certo senso e alla lontana, una specie di Giraudoux in formato molto ridotto. Dio ci perdoni l’eresia, avevamo il grande modello si può dire in casa, ed eravamo andati a cercarne la modesta copia fuori.

Se avessimo, comunque, avuto ancora dei dubbi, essi sarebbero scomparsi dopo la rappresentazone, avvenuta ieri sera all’Odeon, della sua ultima e sconcertante commedia, rappresentata dalla compagnia Adani-Cimara-Volonghi-Volpi bentornata fra noi. Commedia ma solo per modo di dire, questa Sensale di matrimoni. In realtà si tratta del rifacimento di un remoto copione dell’austriaco Johann Nestroy il quale aveva rifatto, a sua volta, un ancor più remoto copione inglese di John Oxenford. Figurarsi.

Modestamente conosciamo, ohimè anche per esperienza, diretta, da quali interiori limitazioni, stavo per dire squallori, dell’inventiva e della fantasia, e invece da quali sollecitazioni di indole critica e interessi letterari e di costume, provenga il gusto, diffuso oggidì, di contaminazioni e rifacimenti di tal genere. Se René Clair incominciò, nemmeno autori rigorosi e pensierosi come Sartre seppero sottrarvisi; e non parliamo poi di Anouilh che ci si è inchiodato sopra in croce e fuori da queste proiezioni e prospettive non riuscirebbe più a scrivere una riga.

In altre parole, con La sensale di matrimoni definita dall’autore “farsa in due atti” cresce di uno il numero di coloro che hanno inteso rifare, con spirito moderno e scettica ironia a scherno di libresche nostalgie, il vecchio vaudeville. Evidentemente in quella meccanica di orologeria, travolgente, assurda e implacabile, c’è qualche cosa – come dire? – di surreale e metafisico che stimola ed affascina i diavoli della mistificazione e della sofisticazioe acquattati nei cervelli contemporanei. Che il pubblico poi stia sempre al gioco, è un altro spinoso discorso. Nulla come questi deliberati tuffi nella semplicità, nella concretezza e nell’immediatezza della comicità plebea e primordiale, nove volte su dieci gli riesce artefatto, aristocratico e inafferrabile e intellettualistico. Si mette in soggezione, non sa che partito prendere, e buonanotte. Sarà che non riesce ad abbandonarsi; ma, insomma, gli sembra impossibile che in una commedia di Thornton Wilder si debba ridere coi qui-pro-quo dei personaggi travestiti da donna, nascosti negli armadi e sotto i tavoli, e coi matrimoni a catena alla fine. Che volete, i complessi sono complessi. Sono, oltretutto, copioni che non hanno avuto nulla da guadagnare a raccontarne la vicenda ridotta all’osso. Comunque, eccoci qua.

Principio Ottocento, Horace Vandergelder, ricco bottegaio di provincia, rimasto vedovo, se ne va in gita a Nuova York per incontrarsi con una immaginaria fanciulla da sposare in seconde nozze. La novella sposa è un’invenzione della fertile fantasia della signora Dolly, già amica della sua prima moglie, e che ha messo gli occhi sul maturo zerbinotto con la scusa di fargli da sensale al matrimonio. Personaggi e situazioni, come si vede, da opera buffa.

Non diversamente da quanto, ad esempio, accade nel Cappello di paglia di Firenze e in decine di altri vaudevilles di Labiche, più o meno all’insaputa l’uno dell’altro e con diversi legami familiari – c’è anche la coppia di una giovane nipote del protagonista e del suo innamorato che il vecchio non vuole farle sposare – il protagonista si trascina a Nuova York un corteo di gente, più o meno interessata a non farsi vedere e a non farsi riconoscere e, puntualmente, sempre fra i piedi l’uno dell’altro, con numerose previste, risibili e, a vero dire, anche insistite necessità di rimaner nascoste reciprocamente. E quando la girandola degli equivoci e delle combinazioni di rigore è esaurita, lieta conclusione con tre matrimoni sul campo: il commerciante e la sensale; la nipotina e il suo patito; un commesso del negozio e una vedova allegra.

E’ un copione esteriormente esagitato e sostanzialmente immobile. La sua unica originalità, a conti fatti, si riduce all’originalità del linguaggio e ai meriti – quando ci sono – del dialogo diligentemente puntualizzati nella nostra lingua da Riccardo Aragno. La malizia verbale, la peregrinità di certe sortite inaspettate, l’umorismo di certi monologhi tendono a sorprendere questi personaggi volutamente e calcolatamente convenzionali in una sorta di rarefatta atmosfera, priva, per così dire, di forza di gravità; cangiante, solubile, leggera e un poco ebbra, come sono, o almeno vorrebbero sempre essere, i giochi dell’intelligenza, gratuiti ed inutili.

Regia un po’ pesante e arruffata di Franco Enriquez e recitazione un po’ faticosa della compagnia, fra scene e costumi lussuosamente eleganti di Pier Luigi Pizzi. E’ mancata quella ricerca di una stilizzazione indispensabile a tal genere di copioni. E tuttavia Laura Adani, applaudita, ha caratterizzato con intelligenza, coraggio, provocazione e incisiva comicità, un tipo di donna aggirante, avida, intrigante, eppure ottimistica ed estremamente simpatica; Lina Volonghi ha profuso la sua arte multiforme di attrice di gran razza, costretta a girare a vuoto; Dina Sassoli, in una parte finalmente importante, ha recitato con spiritosa e affascinante mobilità; il Volpi, il Lionello, la Lazzarini, il Verdiani, la Ciurlo, la Carraresi, il Valli, il Rogato, il De Toma ce l’hanno messa tutta. Ma non è stato sufficiente. Di Luigi Cimara c’è solo da osservare che, sul palcoscenico, da quello squisito interprete che egli è, potrà fare qualsiasi cosa, eccettuato un carattere comico dalla evidenza materialmente concreta, golosa e volgare: precisamente quello che era necessario iersera. Il successo si è trascinato straccamente sino alla fine quando le disapprovazioni hanno sopraffatto gli applausi. Ah, una bella pochade che sia soltanto una pochade!…

Carlo Terron

Ultima modifica il Martedì, 09 Dicembre 2014 14:38
La Redazione

Questo articolo è stato scritto da uno dei collaboratori di Sipario.it. Se hai suggerimenti o commenti scrivi a comunicazione@sipario.it.

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