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SIPARIO RECENSIONI: Titomanlio Carlo

Menzionato Prosa - Carlo Titomanlio

Grimmless - regia Stefano Ricci
La resistibile ascesa di Arturo Ui - regia Claudio Longhi
Amleto Parte Prima - regia Danio Manfredini

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Grimmless
La resistibile ascesa di Arturo Ui
Amleto Parte Prima

Grimmless Stefano Ricci e Gianni Forte
regia Stefano Ricci
con Anna Gualdo, Valentina Beotti, Andrea Pizzalis, Giuseppe Sartori, Anna Terio
movimenti Marco Angelilli
costumi Simone Valsecchi
visto a Cinemateatro Lux di Pisa, 12 novembre 2011

Dell'amore e di altri orrori

Stefano Ricci e Gianni Forte, caso interessante nel panorama teatrale italiano: dalla TV hanno acquisito il dono di raccontare storie a platee senza volto (sono autori della serie "I Cesaroni", e della sit-com cult "Hot"); dal teatro di ricerca hanno appreso l'irriverenza di convocare un mostro sacro solo per umiliarlo. Conquiste notevoli per chi ama nuotare nel tutto esaurito e circondarsi di uno zoccolo duro di sostenitori.
Si comincia con le foto di rito: come invitati a un matrimonio, gli spettatori si lasciano fotografare da due attori-sub, scatti buoni per un salotto televisivo. Il mediale fagocita il reale: è la formula chiave per osservare la contemporaneità. Da qui in avanti, le lunghe tirate pronunciate dai cinque protagonisti hanno il carattere di fiabe al rovescio, a cui è stato estirpato il contenuto fiabesco (grimm-less) ma che cercano con insistenza impennate elegiache, attriti semantici e frizioni logiche, con sfoggio di ansiti ed emissioni impulsive. Narrativamente, la drammaturgia non sfugge al criterio dello zapping, del montaggio senza sintesi né dissolvenza. Sono storie di periferia, storie "nere" di disagio e turbamento; ma è periferico anche il loro darsi nell'economia dello spettacolo, come se guardassero a un nucleo non raccontabile. Quello che il pubblico può vedere è già in scena: lampadari imbustati, trolley sgargianti, una sega elettrica e una casetta delle bambole; un armamentario che non ha nulla di prodigioso, per vite prosaiche e senza magia. Lo sviluppo delle nostre comunità – urbane, sociali, virtuali – ha dato vita a una generazione spuria, in cui ai materiali sintetici dell'abbigliamento e allo stile da outlet (accessori di plastica, bombolette spray, calze di nylon e felpe di acetato) corrisponde l'artificialità dei sentimenti e delle parole. È ciò che sembra affermare lo spettacolo per bocca dei suoi attori, agitati da movenze accattivanti e volgari, sopraffatti da un imbarbarimento pop/kitsch. Il tenue mistero della favola rigurgita il suo contenuto rimosso: rimane un disegno iperrealista, osceno e violento, sguaiato e triviale.
L'operazione di Ricci e Forte proviene dall'alto, da lì trae la sua compiaciuta aggressività, tuttavia l'aggressione sensoriale e la veemenza verbale si riducono a un atto provocatorio imperfetto: le luci, emanate da un'intera parete di maxiriflettori, stenebrano la sala ma non tanto da accecare; alla musica sparata ad alto volume mancano ancora molti decibel per diventare assordante; il fumo che impregna la sala non è sufficiente a impedire il respiro; alla recitazione dei cinque giovani interpreti manca la maturità necessaria per trasformare un temperamento schizoide in qualcosa di sfrenato e sorprendente.
Quando alla fine gli attori, dopo essersi denudati e cosparsi di una patina d'oro, si rivestono di abiti oversize per l'ultima grottesca celebrazione, la misura è ormai colma; rimossa la patina luccicante che ricopre la performance, non resta che un gran vuoto d'originalità.

Carlo Titomanlio

La resistibile ascesa di Arturo Ui di Bertolt Brecht, traduzione Mario Carpitella
regia Claudio Longhi, dramaturg Luca Micheletti
con Umberto Orsini, Nicola Bortolotti, Simone Francia, Olimpia Greco, Lino Guanciale, Diana Manea, Luca Micheletti, Michele Nani, Ivan Olivieri, Giorgio Sangati, Antonio Tintis
musiche originali Hans-Dieter Hosalla; fisarmonica e arrangiamenti Olimpia Greco, scene Antal Csaba, costumi Gianluca Sbicca, luci Paolo Pollo Rodighiero
produzione Teatro di Roma, Emilia Romagna Teatro Fondazione
visto a Teatro ERA di Pontedera, 8 gennaio 2012

Chi ha paura di Arturo Ui?

Scritto dopo l'instaurazione della dittatura nazista ma prima delle atrocità dell'olocausto, La resistibile ascesa di Arturo Ui, affermò Brecht, "è un tentativo di spiegare l'ascesa di Hitler al mondo capitalista, trasferendola in un ambiente che gli è familiare". Ebbene, come si costruisce un consenso di massa? Scegli una comunità sufficientemente indebolita da affidarsi al primo che capita con atteggiamenti da leader, circondati di tirapiedi e aguzzini dal grilletto facile, impara l'arte di parlare in pubblico, elimina i tuoi avversari, seduci o minaccia tutti gli altri. Che si tratti di Al Capone, di Adolf Hitler o dell'ottuso boss dei cavolfiori di Chicago Arturo Ui c'è poca differenza,
insinua Brecht.
Caricatura o alter-ego del Führer, con quel nome, Arturo, che adombra la mala italoamericana (tutti i suoi scagnozzi portano cognomi che sono storpiature di quelli dei gerarchi nazisti), il protagonista con il suo stolido arrivismo satireggia la megalomania di chi si vuole sul gradino più alto nella gerarchia del potere. L'incontenibile tendenza di Orsini all'autocitazione ironica, all'ammicco metateatrale e mattatoriale, ha buon gioco in questo caso perché piega verso la sguaiata musicalità da Kabarett che attraversa l'intero spettacolo. Il quasi ottantenne primattore impregna il suo Ui di momenti lugubri e movenze caricate, che scimmiottano il guittesco portamento hitleriano, lasciando appena ricordare il lirismo di Chaplin (Il grande dittatore, di cui il testo brechtiano è parente non lontano, uscì negli stessi anni). I talentuosi attori-cantanti-showmen che completano la compagnia, abbigliati come maschere grottesche e pacchiane che sembrano uscire da un dipinto di Dix o Grosz, sostengono la porzione più grossa dell'azione, alimentandola con sequenze baracconesche a ritmo di ballata.
Ne viene fuori una messinscena che prova a lucidare, forse con eccessivo compiacimento, la superficie opaca del testo brechtiano. Delle vetuste sbandate ideologiche del brechtismo fa a meno la riscrittura di Longhi e del suo dramaturg Luca Micheletti (premiata nel 2011 con il premio Ubu), il cui maggior pregio sta nell'aver trattato con perspicacia e adeguato sense of humour la logica strutturale dell'opera: il suo ripudio dello sviluppo drammatico canonico a vantaggio di una costruzione "epica"; il suo montaggio cinematografico, si potrebbe dire televisivo (nel suo significato migliore, non si inalberino gli snob!), fatto di stacchi, intermezzi musicali e siparietti da
avanspettacolo; la frizione comica tra la sordida vicenda e l'enfasi declamatoria da operetta.
Sensata l'ambientazione scenica, in cui decine di cassette di verdura formano i piani dei grattacieli di Chicago; lo skyline illuminato da riflettori colorati è lo sfondo di una metropoli rutilante e aggressiva, come doveva essere la Berlino degli anni Trenta, solcata da ariette malinconiche e guizzanti songs in tono maggiore, in parte recuperati dalle musiche originali di Hans-Dieter Hosalla.

Carlo Titomanlio

Amleto Parte Prima Danio Manfredini, da William Shakespeare, traduzione Amerigo Nutolo, Danio Manfredini
regia Danio Manfredini, aiuto alla regia Vincenzo Del Prete
con Guido Burzio, Cristian Conti, Vincenzo Del Prete, Angelo Laurino, Danio Manfredini, Amerigo Nutolo, Giuseppe Semeraro, Giovanni Ricciardi
adattamenti ed esecuzioni musicali Giovanni Ricciardi, luci Luigi Biondi, costumi Enzo Pirozzi, Irene Di Caprio
produzione Danio Manfredini e La Corte Ospitale
coproduzione Theatre du Bois de L'Aune (BLA) – Aix en Provence (France) con il sostegno di Espace Malraux, Scène nationale de Chambéry et dela Savoie – CARTA BIANCA (programme communautaire Objectif 3, Coopération territoriale européenne 2007 – 2013 France – Italie "Alcotra") e Emilia Romagna Teatro Fondazione
visto a La Città del Teatro di Cascina, 10 aprile 2012

Il dubbio in maschera

Appartato e schivo, Danio Manfredini conduce da anni una personale ricerca intorno al tema dell'umanità segnata, quell'umanità, cioè, le cui azioni si trovano ad essere orientate forzatamente, obbligate, quando non incarcerate. Secondo un tratto comune a buona parte del teatro di ricerca, la sua attività si è sempre misurata con la necessità di un processo, prima che con l'urgenza di un prodotto finito: è quella prassi per cui, in assenza di un progetto stabilito a priori, le esperienze di lavoro si sommano, accumulandosi o respingendosi, prima di dare allo spettacolo una forma compiuta, benché provvisoria e vulnerabile. Nel caso di questo Amleto, tale forma peculiare di processualità si scontra per la prima volta con una drammaturgia del repertorio classico; e la tragedia shakespeariana più nota e frequentata (qui presentata a metà, fino al terzo atto cioè) può diventare archivio di individualità marchiate, se, come scrive Manfredini, "attraverso il principe Amleto, sconvolto dall'assassinio di suo padre, si delinea sempre di più un mosaico esistenziale composto dalle lacerazioni che passano fra coscienza e azione, vita e morte, soprusi e giustizia, desideri e destino".
Nel raffigurare gli eventi che conducono Amleto a prendere coscienza della necessità di vendicare l'assassinio del padre, un procedimento di trasfigurazione (o sublimazione?) porta la scena, buia e disadorna, ad essere lambita da una pluralità di tracce differenti: dal teatro giapponese, rievocato nella purezza del suo simbolismo metonimico, alla tradizione del mimo francese. Sono echi assorbiti tuttavia in un disegno prospettico che ha il suo punto di fuga nel peso delle parole: Manfredini unisce alla ricerca esteticofigurativa una riflessione sull'"agibilità" del linguaggio, questione troppo spesso risolta nella direzione di un irraggiungibile rispetto filologico o, altre volte, in nome di un ancor più pretenziosa richiesta di libertà. La nuova e ambiziosa traduzione dal testo originale inglese (messa a punto da Amerigo Nutolo, anche attore di questa compagnia di soli uomini) nasce senza dubbio dalla volontà di misurarsi in prima persona con una scrittura concepita per la scena, con i suoi pieni e vuoti, le sue leggerezze e le sue pietre miliari, ma diventa poi efficacissimo scavo nella miniera di significati latenti dell'opera. I ricami languidi di una viola decorano ogni azione, come frammenti di un lungo requiem. Altri segni luttuosi incidono la materia scenica dello spettacolo: gli abiti pesanti reprimono i movimenti; le maschere, bianche, neutre e perturbanti (quasi una costante del teatro di Manfredini) smorzano l'emissione vocale degli attori. La tragedia ha il respiro corto delle marionette ribelli che la vivono, smaniose di liberarsi dai fili che le sorvegliano.
L'incauto sovrapporsi di eventi teatrali nel fine settimana pisano ha senz'altro nuociuto all'affluenza del pubblico, peraltro indeciso nel concedere il meritato applauso.

Carlo Titomanlio

Letto 6744 volte Ultima modifica il Martedì, 04 Settembre 2012 17:00
La Redazione

Questo articolo è stato scritto da uno dei collaboratori di Sipario.it. Se hai suggerimenti o commenti scrivi a comunicazione@sipario.it.

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