venerdì, 29 marzo, 2024
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INTERVISTA a PASCAL RAMBERT - di Maria Pia Tolu

Pascal Rambert. Foto Fernandez Jean Louis Pascal Rambert. Foto Fernandez Jean Louis

Pascal Rambert è un regista, un drammaturgo e anche un attore che forse, anche per il pubblico italiano, non ha bisogno di presentazioni.
I suoi testi sono stati tradotti e rappresentati in tutto il mondo, anche in Italia, con grande successo: ricordiamo in particolare Clôture d'amour.
Ha diretto molti teatri tra cui il Théatre National de Gennevilliers, presentando oltre che sue opere anche testi di giovani autori. Ha ricevuto molti premi, tra cui quello del "Syndicat de la Critique" a Parigi.
Un personaggio essenziale nell'ambito della cultura francese e internazionale.
Lo incontriamo ad Avignone in occasione del Festival che è stato inaugurato con il suo Architecture rappresentato alla Cour d'honneur du Palais des Papes: spettacolo che ha suscitato pareri discordanti ma che l'autore difende.
Egli si esprime volentieri su temi diversi concernenti il teatro e su di sé, sul suo modo di scrivere, partendo da molto lontano.
Nel nostro colloquio le parole che usa per spiegare un concetto, una situazione, un ricordo, non hanno bisogno di una sospensione, di una pausa tra l'una e l'altra, per stimolare l'immaginazione.
Gli argomenti che usa e gli esempi che fa chiariscono lucidamente il suo pensiero ma sono argomenti che poggiano e si articolano sulla qualità evocativa della parola pronunciata e del gesto che l'accompagna. Gesto che alla fine dell'incontro diventa a sua volta teso a risolvere emotivamente, proprio mimando, la ricomposizione della ferita, della spaccatura (si pensa al suo teatro, fatto di continue joutes verbali, di dissidi), come a chiudere un cerchio alla ricerca di un'armonia.
Ma per un artista forse un cerchio non si chiude mai e per Pascal Rambert, che oltre che artista, un po' filosofo lo è, nessuna verità è acquisita, lo dice proprio all'inizio - anche se la parola può curare le eterne ferite che forse sono un po' in tutti, e che l'artista sembra conoscere ben da vicino -.

Qual è stata l'influenza dei suoi studi in filosofia sul suo modo di fare teatro?
E' stata essenziale. Perché? Perché anche se non li ho portati a termine, in quanto molto presto mi sono messo a scrivere e a mettere in scena i miei testi, gli studi di filosofia mi ha dato subito il gusto del perché, il gusto di mettere sempre in causa, di non dare mai una cosa per acquisita, di mettere sempre tutto in movimento, di riflettere. Poi ho continuato ad occuparmene per gusto personale e ancora adesso in Architecture la filosofia ha il suo posto.
Infatti una delle figure centrali dello spettacolo è quella del filosofo Ludvig Wiggenstein che è un filosofo del linguaggio. Ma non faccio pièces filosofiche.

Infatti sembra che nel suo teatro lei sia piuttosto influenzato da Pina Bausch e da Claude Régy....
Tutti e due hanno cambiato la mia vita. Ho visto i primi spettacoli a Nizza dove sono nato. L'una mi ha mostrato come pensare il corpo in scena e l'altro come pensare all'attore al di fuori del realismo, diciamo americano, anglosassone, ecc....
Sono il frutto modesto (sorride) di queste due influenze.

Architecture Christophe Raynaud De Lage Festival Avignon1

E questo si riflette in Architecture?
Sì, perché il teatro per me è sicuramente un rapporto dei corpi ma soprattutto un teatro di parola. Faccio uno spettacolo di tre ore e mezzo, senza video, senza musica, senza gente che si rotola per terra coperta di sangue. Faccio un teatro che aderisce a quello che credeva Claude Régy, un teatro di gente che parla di fronte ad altre persone che sono sedute davanti. Sono dei corpi con dei costumi e, spero, con un testo forte.

Cosa l'ha colpita in particolare nella maniera di far teatro di Claude Régy?
Il tempo fra le parole, lo spazio del tempo fra le parole. Le parole in Régy sono immateriali. Questo tempo che esiste fra le parole le mette in valore, una per una, crea delle immagini... Claude Régy separa soggetto, verbo e complemento e le apre così (Pascal Rambert apre le mani) come un frutto, un bellissimo melone, un bellissimo cocomero o un'ottima papaia. Fra le parole che egli apre fuoriescono molti profumi che risvegliano l'olfatto, insomma al di là della metafora, l'immaginario.
All'improvviso una sola parola fa nascere tre immagini, quattro immagini, cinque immagini. Lo spettatore ha un lasso di tempo in cui le immagini appaiono, ed è così il momento per la parola successiva e così via.
Nel teatro realista si danno informazioni, nel teatro di Régy vengono date immagini attraverso il tempo. Sono due modi completamente differenti di rappresentare il mondo.

Quindi nella scrittura si sente influenzato da Claude Régy...
Chiaramente, anche se io ho introdotto una maggiore rapidità nei miei spettacoli. Tuttavia Claude Régy resta Claude Régy. Egli era un uomo che amava i testi di Marguerite Duras o di autori di paesi del nord dell'Europa: della Finlandia, della Danimarca o dell'Inghilterra. Terre silenziose...
Io sono quasi un italiano, sono nato a Nizza. Una volta la Liguria andava da Nizza a Genova.

Si sente mediterraneo?
Sì proprio come Wajdi Mouwad, siamo proprio mediterranei.

Un altro regista che ha probabilmente avuto un ascendente nel suo teatro è Patrice Chereau che credeva moltissimo nel valore della trasmissione. E lei?
Io l'ho fatto in maniera concreta durante dieci anni al Théatre National de Genneviliers, dove ho aperto la porta ai giovani talenti. Mi piace molto la trasmissione perché a mia volta ne ho ricevuto i benefici: da Claude Régy che mi ha dato il coraggio, a Pierre Vincent che spesso è venuto a vedere i miei spettacoli. Proprio come Patrice Chereau.
Ma per ritornanre alla scuola di Gennevilliers è stato un momento di passaggi e di comunicazione importanti. Ma, e di questo ne sono convinto, anche vedendosi in questo modo, passando un'ora o un pomeriggio con una persona, si può trasmettere... Insomma io ho ricevuto talmente tanto da queste persone che ascoltarle per dieci minuti era sufficiente per assorbire quel che dicevano. Anche Vitez fa parte di questi incredibili personaggi.
Io ho scritto molte pièces per giovani attori ed esse sono messe in scena un po' dappertutto. Questo è il mio modo di trasmettere come scrittore anche se, quando metto in scena le opere con giovani attori, non mi sento per niente un professore. Non mi piace fare corsi, lo trovo fastidioso, non amo la pedagogia, mi annoia profondamente.

A questo proposito cosa pensa del giovane teatro francese?
Julien Gosselin propone spettacoli molto lunghi, a volte molto corti. Ha un talento folle, si potrebbe parlare di teatro contemporaneo, con tutte le tecnologie e la violenza di oggi.
Poi c'è Caroline Enghien che scrive i propri spettacoli, cosa per me molto importante. Fa un teatro che non è un teatro documentario, lavora con gente completamente diversa, integra le persone e le ascolta. Spesso si tratta di persone che non fanno gli attori di mestiere e Caroline crea mondi meravigliosi. Ha realizzato un lavoro importante a partire dalla sua memoria familiare su Saigon, sulla guerra del Vietnam e le sue conseguenze.
Poi c'è Crezeuvault che forse, diciamolo fra virgolette, è "più artista" dei due. Costruisce oggetti teatrali apparentemente difficili da penetrare, ma con grande poesia. Spettacoli che sono ben costruiti, che hanno una certa asprezza ma che non sono lì per sedurre, almeno apertamente.... E questo mi piace molto.

E' stato già notato che lei sembra prediligere lo iato nelle sue pièces. La dicotomia tra quello che si dice e quello che si fa, come forma drammaturgica...
Eh sì mi piace molto, fa parte della nostra vita quotidiana. Si è in un posto e si vorrebbe essere altrove... diciamo una cosa e facciamo il contrario un'ora dopo.
Questa contraddizione continua è propria dell'essere umano.... Mi interessa molto la contraddizione, il conflitto all'interno di uno stesso personaggio o fra un personaggio e l'altro. Il mio materiale di scrittura è costituito da cose che raccolgo un po' nella vita di tutti i giorni e le trasformo, succssivamente, in personaggi. Sì, questo per me è capitale.

Questa forma drammaturgica è presente un po' in tutte le sue pièces...
Forse non sarà nuova di zecca perché è dal tempo della Grecia antica che viene usata questa forma: lo iato. Come detto ho iniziato a lavorare giovanissimo e questa domanda me la sono posta a partire dalle mie prime pièces. L'eterna domanda, la vera domanda filosofica: la discrepanza tra quello che ci si augura di fare e quello che si fa realmente. Fra il desiderio e la sua realizzazione. Un quesito sorto nell'epoca in cui, giovanissimo e ancora a Nizza, vedevo molte persone che dicevano :"voglio andare a Parigi per fare della musica" e poi rimanevano sempre lì che commentavano "No, non sono andato a Parigi perché non ne ho avuto il tempo". Questa cosa mi ha molto colpito... perché detesto le persone che non danno seguito alle proprie idee. Da lì, secondo me, nasce lo iato e continua nelle pièces teatrali-

Questo iato sembra parlare di sogni, di desideri...
Quando avevo vent'anni parlavo della gente che ha sogni che non si realizzano.
Mi piaceva molto aprire così una ferita (lo dice in italiano), ecco perché è stato molto importante sapere che bisognava ricucire la ferita agendo, realizzando le cose. Credo di essere una persona che realizza sempre ciò che dice.
Quindi ho curato questa ferita con le parole, credo. Cominciando a scrivere, avvicinandone il più possibile i bordi perché se si apre qui sulla pelle (si tocca il polso), bisogna poi ricucire, riavvicinare i due estremi. Bisogna ricucire il desiderio e la sua realizzazione.

E' qualcosa di molto importante in me, direi molto forte ...

Maria Pia Tolu

Ultima modifica il Martedì, 30 Luglio 2019 08:43

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