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Marco Paolini, papà 4.0, i teatri pieni e la voglia di pensare. Conversazione in margine a "Le avventure di Numero Primo" a cura di Nicola Arrigoni

Marco Paolini Marco Paolini

L'appuntamento telefonico è fissato per le 9,30. Marco Paolini è in treno e commenta: «ora ho tempo per chiacchierare un po'. Non è un orario da attore lo so. A parte le interruzioni possibili, dovute alle gallerie, è un momento ideale per raccontare questo mio Le avventure di Numero Primo», sfatando il luogo comune che vuole gli attori allergici a svegliarsi presto la mattina. Una conversazione in treno al cellulare fino a venticinque anni fa sarebbe stata impossibile... e da qui parte Le avventure di Numero Primo (si veda la recensione qui www.sipario.it)
«La mia vuole essere una riflessione su come la tecnologia ci ha cambiato la vita. Un'esigenza nata dopo il mio Galileo e una constatazione che tutti possiamo fare quotidianamente».

Perché dopo Galileo?
«Dopo quello spettacolo ho pensato che avrei potuto occuparmi di scienza, meglio di tecnologia, ovvero quella scienza applicata alla nostra realtà di tutti i giorni che ci ha e ci sta cambiando la vita. Insomma se noi chiamiamo la Natura madre, la tecnologia può essere una sorta di nostro figlio. Da questo appunto preso su un block-notes è nato tutto».

Anche il curioso titolo Le avventure di Numero Primo che fa presupporre una sorta di personificazione...
«Numero primo è mio figlio, così come la tecnologia è figlia del nostro sapere, della ricerca scientifica. Ho letto articoli e saggi sullo sviluppo delle tecnologie, ho cercato di raccogliere informazioni su chi regola i big data e su quella tecnologia che è sempre più pervasiva, che riempie le nostre vite e le nostre menti e disegna scenari impensabili. Non ho voluto affidarmi alla fantascienza, ma ho preferito indagare sulla realtà, sui cambiamenti che ci stanno travolgendo. Anche per questo non mi sono inventato chissà quali megalopoli alla Philip Dick, ma sono rimasto nel territorio in cui vivo: il mio personaggio vive in Veneto e incontra il figlio a Gardaland».

A questa esigenza di concretezza si aggiunge il ruolo della paternità...
«Lo dicevamo prima. La tecnologia è la figlia di un nostro sapere scientifica. Il rapporto fra padre e figlio è più un rapporto culturale che strettamente biologico. Ed è questo legame che vado raccontando, è questa distanza. Volevo raccontare una storia che parlasse del nostro futuro, restando concretamente legata al presente».

Da qui è partito Le avventure di Numero Primo, in equilibrio fra scienza, quotidianità e paternità. Un po' complessa a dirla così?
«E' più semplice di quanto sembri. E' un racconto che si è sviluppato pian piano».

E come?
«Prima attraverso tutta una serie di studi teatrali in cui parole, spazio e voce hanno trovato una loro armonia. Poi con Gianfranco Bettin ho scritto il romanzo di oltre 350 pagine per Einaudi a cominciare dal gennaio scorso. Il romanzo ha avuto una sua compiutezza e vive nell'approccio dei lettori».

E lo spettacolo teatrale?
«Come sempre nei mie lavori parto dal teatro, dal raccontare davanti al pubblico, passo attraverso la codifica della scrittura narrativa e poi ritorno a teatro con un racconto che prende spunto dal romanzo, ma in due ore ne sintetizza il cuore e il senso».

Con che obiettivo?
«Ogni mio lavoro e quelli in particolar modo degli ultimi anni partono da un'urgenza: lasciare domande a chi viene a teatro, sollecitare a pensare sul ruolo della tecnologia oggi, nella nostra vita».

Con che visione?
«Partendo dall'Areopagitica di John Milton, il discorso di Milton al parlamento inglese a favore della libertà di stampa senza censura. Non condivido né le posizioni degli entusiasti della tecnologia sempre e comunque, né degli scettici assolutisti. Credo che quando si parla di tecnologia e di come il nostro mondo sta cambiando sia necessario agire senza censure preventive, ma con il senso del limite».

Cosa intende dire?
«La tecnologia sta cambiando e mettendo a soqquadro ogni spetto della nostra vita relazionale. Eppure tutti ci ostiniamo a dire che noi, no, facebook lo usiamo poco, il cellulare lo accendiamo solo alla bisogna. Un po' come quando si andava a votare, la DC vinceva, ma nessuno era democristiano».

Ed il suo rapporto con la tecnologia qual è?
«Io ho 61 anni e mi vedo costretto a usarla, la uso per finalità ben specifiche. Vado poco al di là della posta elettronica... Mi rendo conto che ora potrei apparire come quelli che dicono: Io Internet non lo uso. Io uso la tecnologia, ma cerco di mantenere un limite».

In questo rapporto il suo personaggio come si pone?
«Il mio personaggio si chiama Ettore, è un personaggio bellissimo, so che non dovrei essere io a dirlo. Ettore è un eroe. Esiste solo in funzione di misurare la distanza, la distanza che ha col figlio e con quel mondo, una distanza che non è rifiuto, ma può essere altro punto di vista».

Una distanza nata anche dal fatto che quel figlio in realtà è un figlio acquisito?
«Sì, ma alla fin fine per un padre il figlio è sempre acquisto. Il rapporto con la madre è rapporto viscerale, quello col padre è si costruisce pian piano».

Nelle Avventure di Numero Primo c'è di mezzo la tecnologia, un'intelligenza artificiale... è un po' diverso.
«L'escamotage di questo figlio che Ettore, fotoreporter, trova a Gardaland dopo che la donna di cui si è innamorato, conosciuta in Internet, gi dice che sta per morire mi è servita per avviare la storia, attraverso la quale racconto i cambiamenti che la tecnologia può causare sul nostro modo di vivere e sul mondo in cui viviamo. Ma al tempo stesso il rapporto che si crea fra Ettore, il padre, e quel bambino offre uno spaccato relazionale importante, costruito sull'esperienza di costruzione di relazione che lega i due».

Nel suo lavoro ci sono più piani di narrazione, ci sono personaggi che si moltiplicano pian piano, c'è una Venezia che assomiglia a una città di Blade runner e un impegno per lei come attori e per noi come spettatori non indifferente nel seguire le avventure di questo bambino umano, ma non troppo.
«La risposta del pubblico è ogni sera una sorpresa. Le donne rispondono in maniera diversa degli uomini, c'è chi dice di non aver percepito il tempo che scorre, chi mi dice che si è perso, ma anche chi si è sentito tradito».

In che senso?
«Molti si attendono da me un teatro di testimonianza civile e di memoria condivisa. Negli ultimi lavori ho cercato di discostarmi da questo cliché, di mettere in discussione il mio modo di raccontare, affrontando argomenti legati all'oggi e innamorandomi della scienza e delle implicazioni culturali che essa porta con sé. Ho ricevuto lettere in cui mi scrivevano se mi ero rammollito. Qualcuno si è sentito tradito, ma io ho bisogno di mettermi in discussione e di pormi e porre delle domande».

Pur non rinunciando al suo stile?
«Ed è questa coerenza che mi ha reso invisibile alla critica».

Per quasi un mese è stato in scena al teatro Strehler e la critica quella delle grandi testate nazionale non ha documentato la cosa?
«Ormai me ne sono fatto una ragione. I critici vanno in cerca delle nuove tendenze, dei nuovi linguaggi e forse io non faccio al caso loro. All'inizio ci soffrivo, oggi non più e non solo perché ho il mio pubblico e i teatri pieni. Un artista va in cerca di un occhio esterno, di un confronto, serve a crescere, a cambiare e a capire anche come gli altri vedono il tuo lavoro. Senza questo confronto non c'è crescita. C'è chi mio dice di mettere troppa carne al fuoco».

E lei cosa risponde?
«La mia scrittura non vuole essere una bella scrittura, ma vuole essere funzionale all'azione teatrale in cui parola, gesto e voce convivono e in cui la mole di materiali usata e raccontata vuole offrire opportunità di condividere una riflessione a chi mi viene a vedere, costruire un dialogo su un presente e un futuro che condividiamo».

Ultima modifica il Venerdì, 22 Dicembre 2017 09:08

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